l’Amore sospetto

Che barba la moustache!
di Simona M. Frigerio

 
  La moustache, Francia, 2005
di Emmanuel Carrère, con Vincent Lindon, Emmanuelle Devos


Anni fa lessi il romanzo “la Moustache”, storia di un uomo che perde se stesso e il contatto con il mondo circostante.
La follia è un filo di nylon teso tra due universi paralleli, Carrère pensava fosse una corda di canapa per ormeggiare l’anima.
Le incongruenze erano talmente kafkiane - eppure lontane da quella genialità - che il lettore più che domandarsi dove stesse la menzogna, tirava un sospiro di sollievo nell’attimo in cui il protagonista estraeva il rasoio - oggetto feticcio forse più dei baffi - e, tagliandosi la gola, eliminava l’anomalia: nell’istante in cui il folle scompariva, ogni cosa tornava ad avere un senso. La logica per esistere deve azzerare l’eccezione.
Si provava uno strano languore a leggere le ultime righe, ascoltando le parole di una canzone di Lou Reed: “A new face a new life no memories of the past / and slit his throat from ear to ear”.
Mai tradimento fu meglio perpetrato: quasi vent’anni dopo esce il film. Cambia il titolo, cambia la trama: storia di una coppia che si perde inspiegabilmente e altrettanto inspiegabilmente si ritrova in un happy ending, stiracchiato come una maglietta da teen-ager e perfino meno credibile della fanta-politica targata Usa.
Carter Dickson spiegava che in una buona detective story il giallista mai deve mentire al lettore: tutti gli elementi devono essere veritieri perché il delitto, come la matematica, abbisogna di regole per avere un senso.
Edward Morgan Forster ammetteva di non essere sempre a conoscenza di cosa accadeva ai protagonisti dei suoi romanzi, ma certamente il suo stile da gentiluomo britannico mai gli avrebbe permesso di cambiare le carte in tavola a metà partita, con la leggerezza presuntuosa di una Agota Kristof: altri tempi, altra classe.
La lealtà nei confronti dello spettatore è altrettanto sacra.
Carrère scrive e dirige il tipico film francese detestato dai “jeunes turcs”: laccato, con una fotografia impeccabile e una vacuità di contenuti, che sicuramente piace a quei critici festivalieri che preferiscono il temino ricopiato in bella calligrafia, piuttosto che l’opera scomoda e destabilizzante.
La fiera delle vanità si accompagna a quella dell’incongruenza e lo spettatore passa da un messaggio lasciato da un padre al figlio in segreteria telefonica alla negazione dell’esistenza del padre, da una cena con amici noiosi quanto autentici alla cancellazione della loro presenza all’interno del film.
La coerenza del puzzle perfetto che seduceva ne il Sesto senso è lontanissima dalle invenzioni iperboliche care a Carrère.
Al di là dei buoni propositi del regista, restano un Vincent Lindon fin troppo fisico nella sua instabilità artefatta; un’ambigua Emmanuelle Devos - già splendida interprete di un gioiellino quale Sulle mie labbra; il loft: vero protagonista dei film pluri-premiati, presa di coscienza dell’impossibilità di vivere in appartamenti che non siano essenziali e rigorosamente su due piani - Haneke insegna; note sulla cucina francese e il lusso di correre in un aeroporto per salire sul primo volo in partenza, o passare un’intera giornata su un traghetto all’altro capo del mondo - forse perché La Manica non è abbastanza esotica - certi che la carta di credito risolverà tutto.