Chicago
Lo spettacolo straniato della realtà
di Francesco Rosetti

 
 
Chicago, USA, 2003
di Rob Marshall, con Renée Zellwegger, Catherine Zeta Jones, Richard Gere, Queen Latifah, John C. Reilly

Forse la forza di un film come Chicago sta tutta nell'intuizione di Rob Marshall di allestire semplicemente un grande baraccone spettacolare, di evitare ogni drammaturgia o sottolineatura registica. Sembrerebbe paradossale affermare ciò per un film visivamente sontuoso, di assoluta cura e perfezione nella gestione dell’ apparato scenografico e nella messa in scena calibratissima di coreografie a-la Bob Fosse o Busby Berkeley, ma fin qui siamo alla perfezione tecnica esibita da uno smaliziato professionista arrivato fresco fresco da Broadway. E nel momento di operare la traslitterazione da una piece a un film è evidente che Marshall si sia posto con certosina precisione il problema del rapporto tra visione cinematografica e misè en scene teatrale. Quella che vogliamo dire è che l’intuizione del giovane regista, ciò che traforma Chicago da sontuoso dessert per lo sguardo in apologo sulla visione è la decisione di risolvere qualsiasi ipotesi di narrazione nello sfarzo coreografico, il puro spettacolo hollywoodiano privato di ogni pretesa di verosimiglianza. Non solo, l’innesto nel delirio coreografico di un intreccio fortemente polemico nei confronti della società dello spettacolo, delle sue perversioni, dà alle immagini un paradossale effetto di straniamento, senza levare un unghia del fascino che da quelle immagini si sprigiona, solo rendendolo particolarmente ambiguo e sulfureo. Spieghiamo meglio quale lavoro teorico Marshall metta in atto:

a) il musical, come tutti i generi (non gli autori che nei generi inserivano la loro poetica personale) della Hollywood classica, dietro la raffinata strategia d’ immagine, ha sempre veicolato dei bisogni ideologici, una volontà di autorappresentazione sociale all’ insegna della composizione armonica dei conflitti(nei contenuti) e della spettacolarizzazione visiva (nella forma).
b) Questa tendenza latente allo spettacolo nei musicals classici esplodeva nei numeri danzati da un Fred Astaire o un Gene Kelly. Unico tra i generi hollywodiani il musical si permetteva di porre un intervallo alla narrazione, di mettere da parte la verosimiglianza per momenti di puro dinamismo plastico-figurativo. Quello che era nato come procedimento straniante nel teatro brechtiano, a Hollywood diventava quintessenza del piacere ottico per lo spettatore.
c) Come rendere allo spettatore di oggi, in apparenza molto più smaliziato e meno disposto a farsi condizionare dal fascino visuale dell’ immagine la bellezza, l’immersione nel piacere audiovisivo del numero musicale, dandogli al contempo gli strumenti cognitivi per identificare le componenti ideologiche che quell’ immagine (come tutte le immagini) veicola, che la rendono così falsa e pericolosa?

Appunto come abbiamo accennato sopra mescolando una messa in scena fatta quasi esclusivamente di numeri e strategie affabulatorie con un intreccio basato polemicamente sul rapporto verità-finzione, la storia di Velma Kelly e Roxie Hart, due assassine nel braccio della morte, assolte e poi assurte agli onori di star del vaudeville grazie ai buoni uffici di un avvocato losco, ma geniale manipolatore dei meccanismi d’ informazione, Richard Gere. Un musical tradizionale consisterebbe in una narrazione più o meno ritmata e brillante intervallata da esibizioni canore o ballerine della star protagonista, immessi nel flusso del racconto senza alcun preavviso o spiegazione. Qui abbiamo un profluvio caleidoscopico di musica e colore in cui entrano ogni tanto spezzoni di realtà (e i due ambiti non si contrappongono nemmeno, anzi l’uno è la versione stravolta dell’altro), e tutti i numeri sono presentati come allucinazioni di Roxie, della sua immaginazione sovraeccitata e patologica. Un escamotage già presente in Dancer in the dark dove ogni pezzo musicale era presentato come fantasia malata della protagonista, anche se nella pellicola di Von Trier il numero cantato era da subito filmato con la fissità di un incubo allucinato senza che fosse stimolato minimamente il piacere ottico dello spettatore. Piuttosto Marshall è interessato ad introdurre una tensione dialettica forte tra racconto (o meglio quel canovaccio chiamato trama) e calligrafia registica, gusto coreografico della messa in scena. L’ incubo che lo spettatore vive è quello di venire tentato di continuo dalla vertgine affabulatoria del caleidoscopio senza poter mai perdere la consapevolezza che di follia e di impostura si tratta. Una trasfigurazione delle cose niente affatto positiva, ma che significa invece fuga dalla realtà, creazione di un universo psicotico e delirante in reazione ad una verità così cruda (e finta anch’essa) da diventare insostenibile. I referenti tra i quali si muoverebbe Marshall a questo punto sarebbero Fosse (evidentemente) e Baz Luhrmann. E non si darebbe Chicago se prima non vi fosse stato Moulin Rouge. Ma sei i due registi sono assimilabili per un certo gusto dell’iperbole coreografica, del barocchismo visivo, i loro intenti profondi sono diversissimi. Luhrmann, come Marshall tende a estinguere la narrazione nel visuale, nel sovraccarico decorativo dell’immagine, ma per sottolineare la carica vitale, liberatoria dell’immagine stessa. Il delirio decorativo di Moulin Rouge, con il suo carico di citazioni e decostruzioni musicali e cinefile, sottolinea il momento dell’immedesimazione, della perdita di sé in quanto visto piuttosto che quello di un possibile straniamento. Non che il suo approccio al problema della visione, non sia ironico e consapevole, solo che, da buon postmoderno sa che l’immagine rimanda solo a sé stessa, si cannibalizza senza posa, senza preoccuparsi minimamente della propria verosimiglianza, ma solo della plausibilità. Quindi tanto vale insistere sul falso smaccato, portare l’immaginazione a livelli di coinvolgimento sensoriale altissimo, giungere al delirio melò. Se Luhrmann fa una sorta di supermusical Marshall al contrario fa un antimusical e per evitare la possibile ipertrofia del regista australiano si appoggia all’eredità di Fosse. Anche in quest’ultimo lo spettacolo è un falso smaccato e i personaggi dei suoi film sono costretti ad indossare maschere (Lenny Bruce come la Minnelli di Cabaret, come il Roy Scheider di All that jazz), ma paradossalmente la componente spettacolare denuncia l’ ipocrisia e la mascherata che si celano dietro la realtà stessa. Siamo alla misè en abime, al gioco di specchi. La distorsione scenica della realtà, svela il falso della realtà stessa. Allo stesso modo in Chicago non c’è una netta contrapposizione netta tra verità e finzione, visto che i due piani si compenetrano di continuo, essendo fatti della stessa sostanza. Le allucinazioni di Roxie si limitano a cogliere della società in cui si muove i moventi profondi e allora è assolutamente plausibile che un processo diventi un circo, un’arringa un virtuosistico assolo di tip tap e una conferenza stampa un teatrino di marionette dominato dal demiurgo che regge le sorti della città, vale a dire il Billy Flynn di Gere. Il pezzo musicale stravolge il sembiante, l’apparenza di una realtà già di per sé falsificabile, teatrale. Per questo lo stile di regia si limita ad una raffinatissima messa in scena di coreografie, perché la narrazione, la verità sono completamente assorbite dalla dimensione ludica, dal piacere del numero circense. E dietro l’archetipo della Chicago anni venti fa capolino la società dello spettacolo nel terzo millennio, con tutta la sua ingordigia di immagini. Anzi la società nello spettacolo, dove oramai il primo termine si è quasi completamente risolto nel secondo.