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I film cinesi a Venezia 56

Il cinema rarefatto

Primo Piano di Luca Persiani



^ Non uno di meno, di Zhang Yimou

Questo film esprime il mio affetto e il mio interessamento per i bambini cinesi. È un film molto sentito. Spero che il pubblico sia altrettanto partecipe, perché credo che le emozioni che vi trovano espressione siano universali e indenni da schieramenti politici e da confini nazionali. [...] In questo film ho scelto il lieto fine, ma desidero che il pubblico sappia che le cose in Cina vanno diversamente e che molti dei nostri bambini non conoscono il lieto fine. Il film è dedicato a loro.
Queste parole del regista Zhang Yimou a proposito del suo Yi ge dou bu neng shao (Non uno di meno), Leone d’oro alla 56 Mostra del Cinema di Venezia, inquadrano bene un film che fa della delicatezza e della semplicità di esecuzione la sua forza. L’impatto emotivo che genera la storia di Wei Minzhi, insegnate tredicenne scelta per sostituire un maestro di paese che si deve assentare per un mese, è tutto costruito sul contrappunto fra la leggerezza innocente degli alunni e l’apparente immaturità della loro giovanissima insegnante. Cosicché quando uno di loro si perde nella città dove era stato costretto ad andare dalla famiglia per trovare un lavoro, il tentativo di Wei di coinvolgere la scolaresca per rimediare i soldi che gli consentirebbero di cercare il disperso Zhang Huike diventa un involontario e inconsapevole percorso educativo tanto agile quanto dettato da necessità reali. Non si fanno più i conti alla lavagna (e non si è più insegnanti) perché “il programma lo richiede”, ma per sapere quanti mattoni occorre spostare per guadagnare il denaro necessario a raggiungere la città con la corriera. L’apprendimento è una specie di “gioco della vita” dettato dalla necessità di salvare una persona a cui si vuole bene. Ed è questa semplice forza che fa andare avanti Wei nella ricerca, catapultata in una realtà urbana che le è completamente estranea. Ma in questo frangente difficile le scopriamo una determinazione e una resistenza alle difficoltà che riescono a colpire anche il presidente di una importante rete televisiva statale, il quale decide di trasmettere in video l’appello di Wei, non senza creare intorno al caso di Zhang Huike un interesse mediatico che stride nettamente con la semplicità dei sentimenti che hanno mosso le azioni della scolaresca. L’asciutto (e francamente inaspettato) sguardo truffautiano di Zhang Yimou raccoglie con partecipazione e rispetto l’arrancare di questi bambini che “conoscono un lieto fine”, che però mai è dato per scontato. Un cinema quasi “rarefatto” nel suo essere essenziale, fatto di volti, corpi e una regia attentissima che si intrufola nel percorso dei bambini riprendendoli con una macchina da presa che è tanto poco intrusiva da far immaginare che, durante le riprese, non fosse lì, fra la polvere dei gessetti e quella delle strade di campagna.

Tao Lan e Yu Xiaoqin sono due sorellastre adolescenti, ma non potrebbero essere più diverse. La prima è scapestrata, la seconda studiosa. Un giorno Yu Xiaoqin ruba del denaro al padre cercando di incolpare Tao Lan che, nel tentativo di difendersi, la uccide incidentalmente e finisce in prigione. Diciassette anni dopo, ormai donna, esce dal carcere e una poliziotta si offre di accompagnarla a casa. Questa la premessa di Guo nian hui jia (Diciassette anni), di Zhang Yuan, film cinese co-prodotto fra gli altri dalla RAI, dalla Fondazione Montecinemaverità, da Fabrica e da United Colors of Benetton. “È la storia di una famiglia, della fragilità dei normali sentimenti umani, e di come le persone vengano sopraffatte da ciò che le circonda”, dice Zhang Yuan del suo sesto lungometraggio. Una storia, come il film di Zhang Yimou, ambientata in una Cina contemporanea mostrata nel suo essere in fase di passaggio da una dimensione di vita (anche nei centri abitati maggiori) sostanzialmente rurale a una maggiormente inurbata e “regolamentata”. Quando dopo 17 anni di carcere (un reale carcere cinese, per la prima volta aperto alle macchine da presa) la protagonista cerca la sua casa, non trova che delle macerie ed è costretta a spingersi alla periferia della città per rintracciare il nuovo indirizzo. E tutto il film ci mette nella condizione di essere testimoni partecipi, come la poliziotta che accompagna Tao Lan, di questa ricostruzione / riconciliazione progressiva che la ragazza opera nei confronti dei sentimenti che gli ormai anziani genitori provano per lei. Superare la paura della madre e la durezza del patrigno, ancora soffocato dal dolore per la perdita della figlia, è ormai unico obiettivo e speranza di sollievo per Tao Lan. Le scelte stilistiche essenziali del regista Zhang Yuan sottolineano con efficacia i momenti forti del film, creando una specie di melodramma gentile che racconta di rabbia, morte e riconciliazione con tutta la forza necessaria ma con la minima enfasi visiva. La notte dell’incontro fra Lao Tan e la famiglia è la notte di capodanno, un capodanno che viviamo quasi tutto all’interno di un appartamento, mentre solo il suono delle esplosioni dei fuochi ci indica il momento della festa “esteriore”. Il vero, nuovo inizio ha luogo nel momento in cui la ragazza e la famiglia compiono la riconciliazione, chiarificando “una contorta relazione familiare e anche l’amore umanitario che nasce in alcune circostanze estreme”.