Mario Bava

Fantastico, ironia e ricerca visiva
di Giovanni Taddeo

 
 
1. Il cinema dell’orrore italiano (1960-1980)
L’opera di Mario Bava (1914-1980) è legata ad un cambiamento che interessa cinema e pubblico. Nei vent’anni che vanno dall’avvento della tv di Stato alla nascita delle tv private (1955-1975) e nei decenni in cui Bava è attivo come regista (1960-1980) la produzione filmica in Italia accoglie le metamorfosi della società, che si laicizza ed esibisce un costume più spregiudicato e disinibito. Combatte la concorrenza con strategie che vanno dal cinema d’autore, all’investimento kolossal, al divismo della commedia, al richiamo dell’esotico, del nudo e della violenza. Cambiano quelle componenti che dominano le storie popolari e che accomunano più generi. Il melodramma sentimentale degli anni Quaranta e Cinquanta fa posto all’elemento sexy-erotico degli anni Sessanta e Settanta: il film dell’orrore, come la commedia, fa da tramite a questa trasformazione. Gli anni che passano da La maschera del demonio (1960), il film d’esordio di Bava, a Contronatura (1969) di Margheriti lo dimostrano: i due film appartengono allo stesso genere horror ma le immagini più esplicite della fine degli anni Sessanta segnalano la svolta.
Il film fantastico e dell’orrore italiano, di cui Bava è in pratica il padre, nasce nel contesto di un sistema complessivo (la produzione nazionale di genere) ed in risposta ad un bisogno commerciale. Alla metà degli anni Cinquanta, si apre in Italia uno spazio di mercato per un prodotto a basso costo, di preferenza destinato ad un pubblico estero, da realizzare con quelle stesse troupes che magari lavorano con gli americani a Cinecittà o continuano la tradizione italiana del film kolossal storico e biblico, del film d’avventura storico-mitologico. Registi come Freda, Bava, Mastrocinque imitano i modelli anglosassoni ma sviluppano anche un incrocio tra i generi narrativi d’origine straniera (horror, giallo) ed un elemento tipico dello spettacolo italiano: il melodramma. Il quale, d’altra parte, è un tono, uno stile (caratterizzato dal segno eccedente la norma) che attraversa i generi e si presta alla contaminazione. Il mondo messo in scena (dominato da fatalismo, manicheismo e puritanesimo) ha le forti tinte dei conflitti assoluti e definitivi (Vizio contro Virtù, Bene contro Male: la lettera maiuscola iniziale è d’obbligo), fotografia e recitazione sono marcate. Il tema più ricorrente è la minaccia al tabù morale e religioso, l’attacco ad una morale sessuale tradizionale portato dal mostro, spesso sotto le apparenze di seducente fanciulla (il genere è stato definito misogino e ginofobico), attraverso quelle forme di sessualità che la società giudica perverse, perturbanti e devianti: voyeurismo, esibizionismo, sadomasochismo, necrofilia, incesto. L’effetto del pathos è così assicurato dallo scandalo che le immagini provocano. Almeno fino agli anni Settanta, quando il panorama produttivo muterà perché la società, smaliziata, avrà bisogno di ben altri choc emotivi: allora, i morti viventi e Satana in persona popoleranno gli incubi degli spettatori.
Il neonato film fantastico italiano si misura con avversari ben visibili sul mercato e Bava, attivo nell’ambito di produzioni nazionali e coproduzioni europee con la Francia, la Repubblica Federale Tedesca e la Spagna, nel confezionare i film, tiene ben presente le caratteristiche dei film di genere praticati dai colleghi.
La casa di produzione American International presenta nelle sale, tra il 1960 e il 1965, le pellicole ricavate dai racconti di Edgar Allan Poe e dirette da Roger Corman. La casa inglese Hammer (a cui si aggiungerà l’Amicus) sforna film dell’orrore che si riallacciano ai miti proposti dalla Universal negli anni Trenta e Quaranta. I film tedeschi prodotti in serie dalla Rialto negli anni Sessanta, tratti dai libri dello scrittore inglese Edgar Wallace, propongono intrecci a sensazione allestiti con gusto enfatico e bizzarro, che non mancano d’ironia: ad esempio Il laccio rosso (1965) mescola gag comiche al consueto racconto giallo e fantastico, completo di shock da fumetto gotico sado-maso. Ad ogni appuntamento, il pubblico ritrova la stessa compagnia di giro: il regista Alfred Vohrer, il musicista Peter Thomas, gli stessi attori, tra cui un giovane biondo dagli occhi spiritati, Klaus Kinski. Inoltre, anche Messico e Spagna tentano la strada del film fantastico e poliziesco con una certa continuità.

2. Mario Bava: stile e temi dell’opera cinematografica (1960–1979)
Mario Bava era figlio d’arte. Eugenio Francesco Bava era un tecnico di prim’ordine del cinema italiano: prima direttore della fotografia e poi capo del reparto trucchi, disegni animati e grafica (disegnava i titoli di testa e di coda) all’Istituto Luce, a Roma, dal 1930. Esordì come operatore con L’amante della luna, interpretato dalla diva del muto Lydia Quaranta. Già in queste prime occasioni diede prova di quell’arte d’arrangiarsi in modo geniale che certo trasmise al figlio. Mi pare indicativo su come si risolvevano certi problemi sul set un episodio raccontatomi da Elena (sorella di Mario): in una scena di un ballo (forse proprio nel film con la Quaranta), tutti gli uomini indossavano delle calze bianche sulle quali erano state dipinte le scarpe nere con la vernice.
Mario all’inizio collabora con il padre all’Istituto Luce, poi sceglie il mestiere di operatore. Dal 1938 al 1960 lavora con diversi registi: per esempio, partecipa a quel periodo d’oro di Cinecittà che coincide con l’uso degli studi da parte delle produzioni di Hollywood. Lavora con Robert Z. Leonard (regista di film musicali per la Metro Goldwin Mayer), con Raoul Walsh e con Jacques Tourneur, grandi artigiani del cinema d’azione e d’avventura. Nel 1960 dirige La maschera del demonio, che è ormai un classico del cinema dell’orrore mondiale: ricavato da una novella di Gogol, rivela il talento del regista e il fascino strano dell’attrice Barbara Steele. Nella sua carriera, tocca i più diversi generi cinematografici: dai prediletti film fantastici e film gialli, all’avventura fantasy-esotica, al film storico-mitologico, al film di fantascienza, al film western o criminale, passando per il film comico e persino il film sexy. Pur operando nel cinema di serie B, ha lasciato un’influenza da vero e proprio autore, inconfondibile e feconda. Ha creato di fatto in Italia l’horror (iniziato dal regista Riccardo Freda e dallo stesso Bava come suo direttore di fotografia, nel 1956, con I vampiri) o il giallo (pensare Dario Argento senza il modello costituito dai film di Bava è impossibile). Ha fornito spunti (e anche un po’ di più) al film d’autore: Federico Fellini usa l’idea della bambina fantasma contenuta in Operazione paura (1966) nel suo episodio di Tre passi nel delirio (1967): Toby Dammit. Sono suoi ammiratori Martin Scorsese, Joe Dante, Tim Burton, Quentin Tarantino e Pedro Almodóvar.
Il suo stile è caratterizzato da almeno tre elementi: il fantastico, l’ironia, la ricerca visiva.
Il fantastico come genere letterario si contraddistingue secondo il saggista e critico Tzvetan Todorov per un dato fondamentale: il mondo fittizio rappresentato dallo scrittore è ambiguo e doppio. Oscilla tra una realtà che si può spiegare con la ragione e una presenza soprannaturale, inverosimile, perché al di fuori delle leggi logiche e scientifiche. Anche Bava adotta una messa in scena che esclude un’interpretazione chiusa e sistematica del mondo. Davanti a La frusta e il corpo (1963), I tre volti della paura (1963), Il rosso segno della follia (1969) e La Venere d’Ille (1979), lo spettatore ha la possibilità di scegliere: o crede all’esistenza dei fantasmi oppure no. Sia ne La maschera del demonio che in Operazione paura, invece, Bava decide di credere all’esistenza del mostro. Il dilemma sul mondo messo in scena (esiste o no?) rimane insoluto: su quest’indecisione tra che cos’è reale e che cos’è immaginario, infatti, vertono i conflitti drammatici (interiori e psicologici) di questi film. In altri casi, l’incertezza provoca effetti comici derivanti dall’equivoco in cui si cade, noi spettatori assieme al personaggio. La protagonista de La ragazza che sapeva troppo (1962) si fida delle persone sbagliate o intrappola chi la vuole aiutare. In Sei donne per l’assassino (1964), l’impermeabile nero che una cameriera indossa ci appare come un indizio pericoloso a suo carico, ingannandoci.
L’ironia, il distacco di fronte alla materia narrata, è uno strumento necessario al regista allo scopo di rendere credibili e coinvolgenti per il pubblico i film che dirige. È una strategia vitale per la sopravvivenza di questi prodotti a basso costo, che scontano una rapida obsolescenza di fronte all’incalzare d’altri oggetti simili nel mercato.
Bava ride sulla storia che narra: è il caso dei beffardi thriller La ragazza che sapeva troppo (che già tramite il titolo – allusione al film di Hitchcock L’uomo che sapeva troppo – ci avverte di inserirsi in un genere narrativo già sfruttato), Il rosso segno della follia (1969), Cinque bambole per la luna d’agosto (1970), Reazione a catena (1971). Ma, contraddittorio com’è, può anche essere serio, nel raccontare una storia già vista. Contamina tra loro materiali derivanti da diversi generi narrativi cinematografici, meritandosi dai critici l’appellativo di manierista (vedi i due film d’avventura vichinga: Gli invasori del 1961 e I coltelli del vendicatore del 1966). Usa i tipi fissi della narrativa di consumo e di massa proprio come essi sono: stereotipi, ancora meno che personaggi piatti (vedi Diabolik del 1968, tratto dal fumetto delle sorelle Giussani). Ricalca il cinema horror classico con Gli orrori del castello di Norimberga (1972).
La ricerca sull’immagine visiva è costante: d’altronde Bava, operatore, esperto di trucchi cinematografici e d’effetti speciali, terrà sempre al lato artigianale e tecnico della sua professione. Modellini, filtri, inganni ottici gli permettono di compensare i limiti di budget e di ottenere, con pochi mezzi, risultati fantasiosi. Disegnando gli storyboard, risparmia tempo e controlla la composizione dell’inquadratura. La luce di Bava è mutevole e poliforme. Può essere classica e sobria, oppure può marcare con forza le ombre, ricordando con il suo bianco e nero il grande cinema espressionista tedesco o la Hollywood anni Quaranta (La ragazza che sapeva troppo). Talvolta, è curata fino all’eccesso barocco, come in Sei donne per l’assassino, con i suoi toni vivaci e l’accumulazione di oggetti in scena, o fino addirittura a colorare le ombre, come ne La frusta e il corpo e I tre volti della paura. Oppure, attingendo al fumetto e a certa fotografia kitsch (che forse vuole imitare lo stile sofisticato delle riviste di moda), ci colpisce perché rende la scena ancora più sensazionale. Non a caso, si è parlato di uso pop e psichedelico dell’immagine, sia dovuto agli accostamenti tra le inquadrature che ai colori primari e saturi, violenti, per Diabolik e per Cinque bambole per la luna d’agosto, in cui l’uso gratuito dello zoom ambisce, assieme a scenografie e costumi, ad essere alla moda.
Il tema ricorrente del mondo ingannevole e doppio offre a Bava lo spunto per un tributo alla sua professione ed a tutta una tradizione familiare di artigianato. Valga come esempio, ne La ragazza che sapeva troppo, l’uso insolito, straniante, da maestro della finzione audiovisiva, che il regista fa di particolari scorci di Roma. La scalinata di Trinità dei Monti acquista un sinistro rilievo gotico e il Quartiere Coppedé viene valorizzato come scenografia ideale per film dell’orrore e gialli ambientati nella Città Eterna. Bava mescola le carte e allestisce incubi che inquietano lo spettatore, il quale finisce per non riconoscere più neanche la sua città.
L’opera di questo regista, tra imitazione di modelli stranieri e scoperta di vie nuove, benché incoerente da un punto di vista della cronologia (in questo, testimonianza di un’età dell’industria cinematografica italiana, tutta rivolta a sfruttare generi e filoni di successo economico), ha fornito un nuovo traguardo da cui partire (non solo agli autori del film fantastico e poliziesco) ed ha trasformato il mestiere in arte, magari solo utilizzando un cavallo finto con sopra un vecchio attore inglese, di nome Boris Karloff.