Luis Buñuel
Antologia di dichiarazioni
a cura di Stefano Finesi


Luis Buñuel
 
Strategie del cinema

Octavio Paz ha detto: “Basta a un uomo incatenato chiudere gli occhi per avere il potere di far scoppiare il mondo”. Io aggiungo, parafrasandolo: basterebbe che la bianca palpebra dello schermo potesse riflettere la luce che le è propria per far saltare l'universo. Ma per il momento possiamo dormire tranquilli, dato che la luce cinematografica è accuratamente dosata e controllata. Nessuna tra le arti tradizionali manifesta una sproporzione così grande tra le possibilità che offre e le proprie realizzazioni.

Un autore può portare avanti una narrazione in due modi: imponendole una direzione intellettuale o morale, o lasciando che le cose sorgano man mano che succedono, e lo spettatore le senta e le pensi. Non mi verrebbe mai in mente - anche se qualche volta me lo sono proposto - di realizzare, per esempio, un film anticolonialista. Posso sì fare un film in cui un signore arriva a Tahiti o a Samoa e alle isole Fiji e si trova davanti degli esseri sorprendenti che gli danno da bere acqua di cocco e lo coprono di fiori. Mi piace e continuo la narrazione e alla fine si noterà senz'altro che io non sono un colonialista, senza che io mi sia proposto di dimostrarlo. Non faccio film a tesi.

Non faccio un “cinema di idee”. Ci sono certamente delle idee alle quali sono fedele, e vi potrei dire che sono ancora le stesse che avevo a ventotto anni, per quanto abbia dovuto ammorbidirne qualcuna, obbligato a questo dalla realtà. Queste idee io le espongo, non le impongo. E, più che idee, sono immagini, sentimenti. Ma mi succede spesso che, scrivendo una sceneggiatura, o durante le riprese, appena introduco qualcosa che sembra avere un significato ben determinato, mi viene immediatamente in mente il contrario.

C'è un insieme di intenzioni. Da una parte, il tentativo di fare dell'onesto cinema di mercato, che interessi il pubblico, che non lo faccia uscire dalla sala. Perché sono molto cosciente del fatto che sono stati investiti dei soldi nel film, che c'è il lavoro di molta altra gente e questo mi dà una certa responsabilità. Dall'altra parte c'è l'imperativo subcosciente che cerca di venire alla luce.

Quando porto sullo schermo un romanzo, mi sento più libero se non è un capolavoro, perché così non mi pongo limitazioni e trasformo e inserisco tutto quello che voglio. Nelle grandi opere c'è un linguaggio letterario, e come si fa a portarlo sul grande schermo?

Odio i primi piani, per quanto a volte siano necessari. I primi piani vanno molto bene per ottenere dei facili effetti melodrammatici.

L'80% delle mie inquadrature si muove, ma si muove molto lentamente, per cui non si avverte. Ho orrore di tutto ciò che si mostra, dell'esibizionismo, degli effetti: i movimenti rapidi avanti e indietro, per esempio. Mi piace la semplicità, detesto la tecnica. Ho sempre girato così, dall'inizio. Progredisco molto poco, lentamente, nella mia concezione del cinema.

Credo di essere stato il primo a farlo nel cinema. (Ne L'angelo sterminatore, ndr) ho ripetuto due volte di seguito l'ingresso degli invitati nella lussuosa dimora di Nobile e la salita al piano superiore, senza altra variazione che un campo e un controcampo. Quando si finì di fare la copia, l'operatore, Gabriel Figueroa, venne a cercarmi, spaventato: “Senta, la copia non va bene. Una scena è ripetuta. Deve essere colpa del montatore”. Gli dissi: “Ma, Gabriel, il montaggio lo faccio sempre io stesso. Inoltre lei stava filmando insieme a me e sa che nella ripetizione usiamo un'altra inquadratura. È una ripetizione volontaria”. “Ah, capisco” disse, ma era veramente spaventato. Poi ho visto che anche Bergman, in Persona, fa uso della ripetizione.

Non porto nello studio la sceneggiatura, ma un abbozzo della scenografia, un'idea generale della posizione dei vari mobili, per esempio. Quando mi trovo davanti alla scenografia, indico sul posto i movimenti degli attori e della cinepresa. Cerco di realizzare inquadrature che siano funzionali e che non richiamino l'attenzione su di sé. Quando vedo dei film in cui si è voluto epater con la cinepresa, esco dal cinema. Le prodezze tecniche mi lasciano indifferente.

Faccio solo una prova prima di girare. Non mi piace neanche ripetere molte volte le riprese. A volte è necessario ripetere, certo, per qualche dettaglio venuto male. Ma se ci sono troppe ripetizioni, arriva un momento in cui mi scoccio e dico: “Basta, non se ne fa più niente”. Se si ripete più e più volte una scena, la recitazione degli attori diventa meccanica, tutto diventa monotono, senza alcuna spontaneità.

Curo molto i rumori, perché possono dare una dimensione che l'immagine da sola forse non ha. A volte mi interessa un rumore che non abbia niente a che fare con l'immagine e che provochi un contrasto che arricchisce la scena. Metto sempre meno musica. Quando c'è della musica deve essere giustificata, deve essere visibile la fonte che la emette: un grammofono o un pianoforte.

Scelgo gli attori soprattutto per quello che esprimono, bisogna che corrispondano alla sceneggiatura. Al momento di girare, mostro semplicemente ciò che bisogna fare: i gesti. Ma sono un pessimo attore e dico di non imitarmi. Non faccio assolutamente della psicologia con gli attori e non dico loro di pensare alla mamma morta per avere l'aria triste.

Politica e società

C'è stato un periodo in cui le mie simpatie erano rivolte al movimento collettivo, al socialismo. Era la mia reazione al sistema organizzato. Simpatizzavo con tutto quanto potesse distruggere la società esistente, convenzionale e ingiusta. Ma adesso penso che allorché la società fosse distrutta, ne apparirebbe un'altra che alla fin fine, sia pure in altro modo, sarebbe uguale alla precedente. Non so se sia giusta la teoria di tesi, antitesi e sintesi. In questo momento sono uno scettico benintenzionato. Voglio dire che continuo a nutrire simpatia verso chi crede nella possibilità di realizzare una società migliore, e, se ne avrò l'occasione, darò una mano in questo senso.

Posso pensare che il comunismo continui a essere, per adesso, il pilastro più solido della rivoluzione mondiale, per quanto io sia oramai fuori da questa lotta. Non posso proporre soluzioni, non so quali potrebbero essere. Cerco semplicemente di non tradire le convinzioni della mia gioventù e di arrecare minor danno possibile. E cerco di realizzare dei film moralmente onesti.

È possibile che, oggi, il pronunciarsi come prima contro la Famiglia, la Patria, il Lavoro, sia un po' demodé, poiché noi sappiamo per esperienza che la distruzione fisica della famiglia non è più necessaria per costruire una società nuova. Ma il mio atteggiamento nei confronti di questi principi non è cambiato: bisogna distruggerli in quanto categorie supreme, in quanto principi intoccabili.

Non mi prefiggo né di trattare bene né di trattare male gli operai. Il fatto che una famiglia sia operaia non me la rende né simpatica né antipatica. La mia simpatia dipende da come è una persona. Inoltre, io vedo sempre con humour certe cose. Ne L'angelo sterminatore la donna affetta da cancro dice al dottore: “Vero che lei mi porterà al santuario di Lourdes? Voglio che lei mi ci porti e che mi compri una vergine in plastica lavabile”. Questo lo dice una borghese e io la tratto con un certo umorismo. Sono imparziale.

La società va di male in peggio. Anche prima gli uomini si uccidevano, ma non come lo stanno facendo ora, che sembra essere su scala infinita. Dal punto di vista morale, l'uomo vive adesso, nella nostra epoca scientifica e tecnologica, come all'età della pietra. Molto peggio che nelle epoche passate, con una carica di cattiveria maggiore.

La libertà è un fantasma. Questo l'ho pensato seriamente e in questo credo da sempre. È un fantasma di nebbia. L'uomo lo insegue, crede di afferrarlo e tra le mani gli resta solo un po' di nebbia. Nella mia immaginazione la libertà si è sempre concretizzata in questa immagine.

Devo avere una venatura anarchica, perché, si sa, noi spagnoli siamo tutti anarchici sotto sotto. No, sto scherzando. Forse sono un anarco-nichilista… ma pacifico.

Non sono determinista: voglio dire che credo che nessuno sia per sempre determinato moralmente per il fatto di essere nato in una classe sociale piuttosto che in un'altra. Il nascere borghese non condanna nessuno a pensare e ad agire come tale per tutta la vita. La convivenza modifica i modi di essere. Poniamo un caso estremo: un prigioniero e una guardia. Quest'ultimo dovrebbe essere incredibilmente vile per non stabilire alcuna forma di rapporto umano con il prigioniero. Ma… non ci sono regole, vero? Anche la convivenza forzata può degradare le relazioni umane. Se obbligassero lei e me a vivere rinchiusi in una stanza per sempre, potremmo comportarci da persone buonissime e cercare di aiutarci, ma quasi sicuramente finiremmo per detestarci, provando del risentimento per ogni cosa.

Erotismo e pornografia

Una donna con una chemise nera, con pizzi, calze con giarrettiere e scarpe con il tacco alto è più erotica di una donna nuda. Il nudo totale, generalmente, è puro, non erotico.

L'erotismo è un piacere diabolico, legato alla morte e alla carogna. Ho messo qualcosa di questo nelle scene d'amore dei miei film.

In realtà, i piedi e le scarpe, sia femminili che maschili, mi lasciano indifferente. Mi attira il feticismo del piede come elemento pittoresco e umoristico. La perversione sessuale mi ripugna, ma può attirarmi intellettualmente.

Non sono contrario alla pornografia, purché vissuta tra quattro pareti, come succedeva prima. Sono contrario alla divulgazione e alla moda della pornografia. Succede come per il terrorismo e la moda delle bombe: mettono una bomba a chiunque, al prete, nell'automobile del signor Tal dei Tali, al ragazzo della porta accanto. La pornografia cinematografica, fatta per compiacere il pubblico e ricavare più soldi, mi ripugna.

Per me, la fornicazione ha qualcosa di terribile. La copula, considerata obiettivamente, mi sembra allo stesso tempo comica e tragica. È la cosa che più assomiglia alla morte: gli occhi sbarrati, gli spasmi, la bava. E la fornicazione è diabolica: ci vedo sempre il diavolo.

Sono anche contrario alla violenza come spettacolo. La stessa pornografia può essere violenza. In epoca surrealista, il direttore dello Studio 28 mi aveva regalato un film pornografico intitolato Soeur Vaseline (ottimo titolo). Ma erano due bobine molto brutte. (…) A volte noi surrealisti abbiamo immaginato di assaltare una sala cinematografica e di mostrare, come manifestazione sovversiva, questo film. In due saremmo andati nella cabina di proiezione, altri due sarebbero rimasti a controllare la sala e io avrei proiettato il film. Lo avremmo fatto durante uno spettacolo a cui assistevano anche dei bambini. Volevamo che i padri di famiglia con la loro morale borghese si scandalizzassero, perché noi surrealisti consideravamo lo scandalo come un'arma. Poi non l'abbiamo fatto.

Oggi, tutti vogliamo colpire con scene di nudo, con la sensualità. Il pubblico borghese che va al cinema le richiede nella misura in cui le ha condannate venti o trenta anni fa. Sono molto facili da fare e poiché corrispondono allo spirito generale realizzarle significa piegarsi al conformismo.

In una poesia Breton dice che l'amore è una cerimonia segreta che deve celebrarsi nell'oscurità, in fondo a una sotterraneo. Questo, per me, è vangelo. Invece la pornografia è l'amore celebrato in uno stadio o in un'arena dove fanno le corride.

L'immaginazione al potere

Una cosa è l'immaginazione e un'altra è la vita. Dal punto di vista dell'immaginazione, nessuno ha niente da insegnarmi, perché so tutto, spero tutto. Con la vita è diverso. Nella realtà non sono mai stato un uomo d'azione, ma nell'immaginazione lo sono. E per questo nell'immaginazione posso essere aggressivo. Nello stesso momento in cui nella realtà sto salutando una persona, nella mia mente posso pensare di ucciderla. Sono due piani diversi: quello reale, dell'attività sociale, da una parte; e dall'altra quello immaginato, sognato. In L'âge d'or mi ero proposto di offendere il pubblico, perché a quell'epoca mi sembrava necessario. Eppure, quando in Un chien andalou ho dovuto tagliare un occhio a un vitello morto, mi sono dovuto fare coraggio.

Fatta eccezione per due o tre film, il neorealismo non mi piace. Filmano la realtà immediata e razionale. Per esempio: un bicchiere, per un neorealista, è un oggetto di cristallo che serve a bere dell'acqua e niente altro. Ma, a seconda del grado di affettività che impieghiamo in questa contemplazione, per semplice spinta irrazionale e per l'intervento del subconscio, quel bicchiere può evocare in me un cavallo dalla bocca malata, o il ricordo di mia madre, o qualunque altra cosa.

Sono compenetrato di un'ambiguità connaturata che rompe le idee fisse, immutabili. Dov'è la verità? La verità è un mito. Essere materialisti, inoltre, non significa negare l'immaginazione, la fantasia, né che possano esistere certe cose inspiegabili. Razionalmente, non credo che a un monco possano ricrescere le mani, ma posso fare come se lo credessi, perché mi interessa quello che succede dopo. Inoltre, sto lavorando con il cinema, che è una macchina per fabbricare miracoli.

I sogni sono il primo “cinema” inventato dall'uomo, perfino con maggiori possibilità del cinema stesso. Neppure il più ricco dei produttori le potrebbe finanziare la superproduzione di certi sogni. Ma parliamo sempre dei sogni e dimentichiamo le fantasticherie, la rêverie. Io credo di preferirla al sogno vero e proprio perché uno non può dirigere un sogno, ma la rêverie fino a un certo punto sì.

Psicanalisi

Jung vide Un chien andalou e disse che era un caso di dementia praecox.

Uno specialista mi dichiarò soggetto non-psicanalizzabile. Io credo di conoscermi bene. Non c'è niente che uno psicanalista possa scoprire in me. La psicanalisi, in effetti, è un sostituto della confessione cattolica. Durante una seduta ci si scarica la coscienza per venti, trenta minuti. Questo, io lo faccio da solo.

Detesto fare “film d'arte” inserendovi riferimenti pittorici. Ci sono dei critici che, se vedono in uno dei miei film un nano o un mendicante, tirano in ballo Velásquez e Goya. Allo stesso modo potrebbero dire che sono un cineasta cubista, se in un mio film vedessero un oggetto quadrato. Succede come con “i simboli di Buñuel”. “Qui c'è un pino, che simbolizza un pene, secondo questo e questo paragrafo di Freud…”. È assurdo. Questa psicologia spicciola arriva al ridicolo. Freud aprì una finestra meravigliosa verso l'interno dell'uomo, ma il freudismo è diventato una chiesa che ha risposte per tutto. Forse c'è qualche seguace di Freud che vede tutte le pistole che appaiono nei film come simboli fallici.

Religione

Io sono profondamente e coscientemente ateo e non ho nessun tipo di problema religioso. Anzi, attribuirmi una tranquillità spirituale di tipo religioso è innanzitutto non capirmi e poi offendermi. Non è Dio che mi interessa, ma gli uomini.

Ho smesso di essere religioso durante la mia adolescenza. Ma voi credete che nel mio modo di pensare non sussistano molti degli elementi della mia formazione cristiana? Tra le altre cose, una cerimonia in onore della Vergine, con le novizie nei loro abiti bianchi e il loro aspetto di purezza, riesce a commuovermi profondamente. Può essere per molte ragioni, perfino erotiche, vero? Ma perché quella cerimonia e non un'altra? A me, per esempio, un ballo di bellissime odalische in un harem non attira come quella cerimonia. Cioè, uno sfondo cristiano, cattolico, è rimasto. Non faccio parte del “gregge”, ma non posso negare di essere stato segnato sia culturalmente che spiritualmente dalla religione cattolica.

Effettivamente, oggi la sacralità conta proprio poco. Pur non essendo credenti, possiamo sentire questo fenomeno come una perdita. Un pover'uomo cattolico nel Medioevo sentiva che la sua vita, per quanto dura potesse essere, aveva un senso, faceva parte di un ordine spirituale. Per quell'uomo, la volontà e lo sguardo di Dio erano dovunque. Viveva “con Dio”. Non era come un orfano. La fede gli dava una terribile forza interiore.

Non faccio film a tesi, né religiosi, né atei.

Citazioni tratte da:
Buñuel secondo Buñuel, di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina - Ubulibri, 1993
Tutto il cinema di Luis Buñuel, di Alberto Farassino - Baldini&Castoldi, 2000
Luis Buñuel, di Alberto Cattini - Editrice Il Castoro, 1995

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