John Landis
Mr. Landis plays the blues
di Adriano Ercolani

 
 
Autore ormai apparentemente esaurito, incapace a quanto sembra di riproporre gli stilemi e le sperimentazioni linguistico-narrative che hanno fatto grande in passato il suo cinema, John Landis è stato omaggiato di una retrospettiva completa dalla XXII edizione del Torino Film Festival, che ne ha riproposto tutte le opere in pellicola e in versione originale. Ebbene, la possibilità di rivedere in sala i primi, fondamentali capolavori di Landis, mi ha letteralmente “aperto gli occhi” su un regista che precedentemente avevo sì apprezzato, ma mai considerato come uno dei massimi esponenti del cinema americano degli anni ‘80. Ovviamente, mi sbagliavo. Osservatore acuto e serafico della società americana in cui in quegli anni imperversava lo yuppismo e il capitalismo esasperati - perfino un film “minore” e su commissione come Il principe cerca moglie può testimoniarlo -, Landis ne ha sistematicamente mostrato il lato oscuro, anche se attraverso la lente deformante e preziosa del comico demenziale o grottesco. Facendo questo, ha perfezionato con il passare dei film uno stile assolutamente riconoscibile in ogni opera, mescolando con estrema sapienza tutte le componenti del mezzo-cinema. Da Ridere per ridere a Animal House, fino ai grandi film del decennio successivo, ogni opera della prima fase della carriera di questo cineasta possiede in sé una vena sovversiva ed iconoclasta, capace di appropriarsi e allo stesso tempo demitizzare la way of life americana. Proprio il primo successo commerciale di Landis, che ha poi dato vita la redditizio filone dei college movies più ridanciani e pasticciati - ma non dimentichiamo che Animal house è targato anche Harold Ramis (co-sceneggiatore) e Ivan Reitman (produttore), altri compagni d’avventura nell’esplorazione del cinema demenziale di quel periodo - esemplifica una volontà precisa e coerente di mettere alla berlina quanto di più falsamente bigotto e fuorviante possa esistere nel sistema educativo americano: Animal house, in tutta la sua ingenua vena goliardica, possiede già molto del successivo sviluppo estetico del cinema del suo regista, pur ancora non pienamente espresso.
A prima vista il modo di dirigere di Landis, soprattutto il suo lavoro sull’inquadratura, potrebbero apparire come un approccio poco approfondito alla realizzazione del film. Nulla di più inesatto. La precisa volontà dell’autore di girare le maggior parte delle inquadrature con macchina fissa si rivela fin da The Blues Brothers come un metodo perfettamente coerente nell’assecondare un tipo di comicità che necessita di uno specifico ritmo filmico. Il cosiddetto demenziale portato sullo schermo da Landis, che soprattutto nei film con John Belushi è un diretto discendente dello slapstick del periodo d’oro di Hollywood, deriva la sua forza comica principalmente dai tempi di reazione degli attori, che per essere maggiormente efficaci necessitano di inquadrature che tengano un tempo prolungato; quello per cui il regista si adopera è non sottolineare maggiormente, con un apparato formale invasivo, quanto di già importante sta venendo registrato dalla macchina da presa. Se analizziamo The Blues Brothers, la peculiarità che salta immediatamente agli occhi è che il montaggio confluisce all’opera un ritmo per nulla sincopato, tutt’altro. La distensione temporale aumenta invece sia il senso di “surrealtà nonsense” (appunto anche visiva) in cui si muovono i personaggi, sia la possibilità che all’interno dell’inquadratura si sviluppi improvvisamente il lazzo, l’acrobazia fisica, in poche parole lo humour. La fisicità del duo Aykroyd/Belushi si sprigiona dall’interno dei personaggi, non viene incollata al film dalle peripezie della macchina da presa.
Altro mirabile esempio di come Landis segua i suoi attori invece di anticiparli è Tutto in una notte, in cui in molte scene il film segue i tempi attoriali di Jeff Goldblum anche a scapito - solo apparentemente - del ritmo della narrazione: invece di chiudere una scena, spesso accade che il regista lasci che Goldblum costruisca la densità del personaggio sullo spiazzamento temporale delle sue reazioni fisiche e psicologiche; il suo Ned Oken, una sorta di Buster Keaton spaesato e soprattutto rallentato dall’insonnia, adopera tutto il tempo filmico necessario per arrivare a comprendere situazioni a lui sconosciute o per reagire ad impulsi motori provenienti dall’esterno. La grande comicità di Tutto in una notte, di certo il film più sottovalutato di Landis, è data dall’attesa surreale che qualcosa succeda, o venga fatto. Goldblum è assolutamente fantastico nel suo essere sopra le righe e contemporaneamente sempre un passo indietro rispetto ai tempi che un film qualsiasi avrebbe richiesto; così facendo l’attore rallenta e impreziosisce, aiutato dalla sensibilità di Landis, un noir che da reale si fa surreale, stonato, poetico. L’inaspettato, il deviante rispetto alla norma, il tempo scivolato rispetto ai parametri, rende in qualche modo il cinema di questo autore paragonabile ad un’improvvisazione musicale, del genere che lo stesso Landis tanto ama.
Con il passare delle pellicole si può inoltre notare come lo stile preciso si sia poi evoluto, raffinato nei modi e soprattutto nella fase di scrittura: pian piano i personaggi sono diventati più simili agli eroi delle sophisticated comedy che non a quelli, comunque mai abbandonati del tutto, delle slapstick comedy: Una poltrona per due ne è l’esempio più lampante. Già la partitura musicale, che abbandona le gloriose canzoni blues per trovare un’efficacissima musica classica, dà la misura del tentativo del cineasta di volare più alto; Landis non dimentica il suo cinema dell’assurdo e del parodistico, ma lo inserisce in un’ambientazione e in una storia che lo contengono all’interno di alcuni limiti dettati dal genere. Murphy e Aykroyd, seguiti da un gruppo di caratteristi straordinari come Bellamy, Ameche, soprattutto Elliott, sono assolutamente comici, ma di una finezza più elevata rispetto alla debordante (e forse più efficace?) fisicità delle figure che li hanno preceduti. Tuttavia, questo lavoro di sottrazione sull’istrionismo esagerato dei personaggi si poteva notare anche in alcune operazioni precedenti: già nel passaggio da Animal House a The Blues Brothers è evidente come John Belushi abbia incanalato la sua dirompente fisicità in un lavoro gestuale ed espressivo molto più stilizzato ad efficace, arrivando ad una caratterizzazione strabiliante pur dentro i confini imposti da un personaggio fortemente costruito: pensiamo al costume sempre uguale, agli occhiali scuri sempre davanti agli occhi, alla laconicità radicale di Jake Blues, e lo stesso avremo di fronte agli occhi un’icona imprescindibile della comicità americana di tutti i tempi, un modello mitico almeno quanto il vagabondo di Chaplin o il picchiatello di Jerry Lewis.
Invece che un cinema confuso e ridanciano, Landis con questo metodo riesce comunque a costruire un universo filmico coerente ma altro, incredibilmente imperniato sul realismo, in cui le regole imposte vengono accettate immediatamente. Pensiamo ad esempio ad Un lupo mannaro americano a Londra: anche se si tratta di un horror, la messa in scena gioca sempre su un tipo di effetti speciali (ancora oggi straordinari) che non mette mai in discussione l’effettività e la realtà del film, anzi ne conferma tali impostazioni. Le apparizioni di Griffin Dunne sono un piccolo capolavoro di alternanza di piani di percezione: sovrannaturale e reale si mescolano senza fare confusione, creando uno spazio tangibile di senso che rimane equilibrato tra i due stadi: c’è un cadavere in decomposizione che parla con un essere umano in una stanza d’ospedale o in un bagno, ma mai si mette in dubbio che l’impostazione di messa in scena data da Landis non sia assolutamente realistica. Il gioco che si crea tra opera cinematografica e spettatore, una specie di specchio che fonde la tangibilità della percezione e l’irrazionalità della visione, rende Un lupo mannaro americano a Londra sicuramente una delle opere più complesse e stratificate della filmografia dell’autore, che oltretutto è finalmente riuscito a dare con questo film libero sfogo a tutta la parte più macabra e nera della sua vena umoristica.
Senza dubbio sommario e troppo breve, questo è il percorso che abbiamo intrapreso all’interno del cinema di John Landis: un cinema certo popolare e adatto, almeno in passato, all’accoglienza calorosa del grande pubblico. L’augurio è che il regista, forse indissolubilmente legato ad un periodo storico/sociale ormai defluito e superato, ritrovi la vena che lo ha reso uno dei grandi maestri della comicità cinematografica americana.