John Cassavetes
La coerenza nel caos, pt 1
di Adriano Ercolani


sommario
parte 1
parte 2
parte 3
 
Se è impossibile non riconoscere una linearità al cinema di John Cassavetes, tuttavia parlarne è complicato: ci troviamo davanti a un regista che ha coerentemente e razionalmente scelto il caos come proprio mondo. Caos inteso come confusione totale: di teatro e cinema, di improvvisazione e regola, di voci e di gesti, soprattutto di arte e vita. è difficile riuscire a definire i confini tra queste coppie che si confondono e si intersecano: ogni componente del metodo di Cassavetes tende a mescolarle ancor di più e a rendere sempre più ingarbugliata la matassa del discorso. In più il regista ha sperimentato qualcosa di nuovo praticamente in ogni film, denunciando una poetica coerente ma in continua evoluzione. Il metodo di lavoro è stato elaborato con coerenza a partire da Shadows (Ombre, 1959-61), il suo primo lungometraggio da regista, fino a Love Streams (id., 1984), sua ultima vera fatica (difficilmente si può considerare Big Trouble - Il grande imbroglio, 1986 - come l’ultimo film di Cassavetes: il regista, ormai malato, subentra ad Andrew Bergman praticamente a metà riprese, grazie all’intercessione dell’amico Peter Falk, e la sceneggiatura è di Warren Bogle), ed ha trovato piena funzionalità con Faces (Volti,1968). Diversi sono stati i tentativi di trovare un equilibrio instabile tra le varie componenti, attraverso una squadra costante di collaboratori, o meglio co-autori, come il regista ha sempre tenuto a sottolineare. Si può davvero parlare di prodotti scaturiti dalla collaborazione e dall’intesa (dalla “fatica”, un concetto molto caro al regista) di alcune persone, fra loro vicine nelle intenzioni, nelle emozioni e nelle idee. Sono, fra gli attori, i vari Ben Gazzara, Seymur Cassel, Lynn Carlin, Peter Falk, oltre naturalmente a Gena Rowlands e Cassavetes stesso. Grazie a questo imperante elemento umano, il cinema di Cassavetes vuole mostrare il calore, la visceralità, il “basso” dell’esistenza. Una delle caratteristiche principali del suo lavoro è quella di eleggere a regola e a principio vivificante uno status di “condizione altra” dell’essere umano. In ogni suo film troviamo tutti gli elementi-cardine che trasportano la persona nella sfera dell’alterità: l’alcool, il riso, il confronto fisico, il frastuono, la festa. Non sappiamo quanto di questo coincidesse poi con la vita dell’autore e delle persone che lo circondavano: di sicuro il grado di umanità e di realtà (intesa nel senso di distruzione dell’artificio-cinema) presente nella sua opera sembra decisamente superiore a qualsiasi altro cineasta americano. In questo senso Cassavetes non potrebbe essere più lontano dal concetto quasi titanico di "autore” che si è venuto sviluppando nella a lui contemporanea New Hollywood. Disponibilità a mettersi in discussione, a cambiare, a non considerare se stesso come un qualcuno al di sopra delle persone che hanno lavorato con lui: grazie a questa attitudine, nel corso dei venticinque anni della carriera del regista, le caratteristiche dello stile di Cassavetes sono andate via via assumendo dei connotati ben precisi ed una stabilità differenti dalle prime opere, mantenendo una peculiare “coerenza del caos”.

Il metodo
Per parlare della scrittura e della regia di Cassavetes, bisogna partire da un’altra epoca, da un altro luogo e da un altro uomo. Dobbiamo partire da Konstantin Sergevic Alekseev, nato e vissuto in Russia tra il 1865 e il 1938, e noto con lo pseudonimo di Stanislavskij. Il metodo del suo fare teatro parte dall’improvvisazione libera, e da questa costruisce le scene da portare sul palcoscenico. Non c’è mai un testo prestabilito, soltanto un canovaccio per avere presente la storia e le sue linee conduttrici. Tramite l'improvvisazione (verbale ma soprattutto fisica) l'attore deve trovare dei punti di contatto emotivi e corporali con il suo personaggio. Attraverso la scoperta sempre più vasta di queste connessioni, può ricomporre su di sé il ruolo, avendolo introiettato a partire dalle proprie sensazioni. Una volta trovata la partitura dell'attore, allora il regista può fissarla al canovaccio ed iniziare a riscrivere il testo, partendo questa volta dall'interno stesso della storia, cioè da ciò che gli attori hanno fatto proprio. In questo modo la partitura diventa uno scheletro imprescindibile, un’ossatura ferrea che non può essere sovvertita. L'immedesimazione e la spontaneità che si raggiunge durante gli spettacoli arriva a vertici prima sconosciuti: eppure tutto è rigidamente controllato.
Questo in sintesi era il metodo di Stanislavskij. Queste stesse parole, a parte alcune piccole differenze, possono descrivere il metodo di Cassavetes. Con un gesto del tutto innovatore, il regista introduce nella pratica cinematografica un modus teatrale che egli ha conosciuto nei suoi anni trascorsi all’Actor’s Studio, sotto l’insegnamento di Lee Strasberg. Ma se il maestro ha travisato, per così dire, le idee di Stanislavskij, sviluppando soltanto la parte introspettiva e psicologica per la costruzione del personaggio, molto più capace è stato l’autore di Faces. Proprio da questo film viene fuori definitivamente il modo di concepire testo e messa in scena da parte di Cassavetes: i suoi lavori precedenti, anche la novità di Ombre, sono stati degli ibridi non compiuti nel loro intento, dei tentativi di trovare una via ai propri principi di composizione.

Il teatro, la parola, il corpo
Come quando a teatro si deve mettere in piedi uno spettacolo, Cassavetes riunisce intorno a sé un gruppo di persone (in pratica i suoi amici), e dagli umori, dalle idee di questo gruppo nasce un qualcosa che si sviluppa tramite la collaborazione di tutti. Una volta che il progetto parte, entra in scena il regista, che dirige ed incanala le idee e gli spunti raccolti in precedenza verso una sceneggiatura (“aperta” quanto si vuole ma comunque presente) ed una messa in scena. Pensare a lui come uno scrittore che si mette a comporre pagine e pagine piene di dettagli sarebbe un errore: ma come lo stesso autore ha sempre tenuto a sottolineare, nulla era lasciato al caso e molto di quello che poi veniva girato era stato scritto in precedenza. Cassavetes, come Stanislavskij, arriva a fissare il testo dopo averlo fatto nascere dagli attori e sugli attori. Dopo che questi, attraverso appunto la pratica dell’improvvisazione, sono riusciti a creare un’atmosfera che si avvicini il più possibile alla realtà. Il cinema di Cassavetes è pieno di rumori, di flussi di parole, di corpi in piena attività: elementi nati da una fonte primaria insostituibile, l’attore, che con l’autore ha provato, ragionato e vissuto ciò che poi arriva a noi attraverso lo schermo.
Al principio dell’ispirazione del cinema di Cassavetes c’è dunque il teatro. Perché nella vita reale ogni persona è costretta ad indossare una maschera, e da questa è condizionata. L’istrionismo degli attori dei suoi film è dovuto proprio al fatto che essi devono recitare personaggi che a loro volta e loro malgrado recitano i propri ruoli nel gran carnevale che è la realtà. Dalla rottura del meccanismo, dovuta alla fatica di dover sostenere queste parti, si generano i conflitti e le crisi presenti in tutti i film dell’autore: la coppia di coniugi di Faces si sente libera soltanto quando non è unita, quando cioè nessuno dei due deve essere per forza “marito” o “moglie”; lo stesso avviene per Mabel in A woman under influence (Una moglie,1974), che non riesce ad essere madre e consorte. L’esempio più eclatante di questo discorso sull’apparenza rimane comunque la Myrtle di Opening night (La sera della prima,1977): un’attrice non sa vivere la propria condizione di donna di mezza età nel mondo reale, ed è costretta a recitare fino all’isteria. Una volta arrivata sul palcoscenico (anche nella scena finale in cui è sbronza) ritrova il suo equilibrio e la sua capacità di riconoscersi per quella che è.
Il cinema di Cassavetes può definirsi teatrale anche perché è un cinema molto parlato. Eppure quest’uso impetuoso della parola è forse paradossalmente una delle componenti che lo allontanano dal teatro: mentre infatti sul palcoscenico la parola è un elemento fondamentale per la comprensione e la risoluzione degli eventi, in film come Faces o Minnie and Moskowitz (Minnie & Moskowitz,1971) essa crea disagio tra gli interlocutori. Nel mondo di queste persone si parla molto, ma non si sa ascoltare. I fiumi di parole che vengono prodotti servono per esternare le proprie nevrosi, ma la vera comunicazione si attua tramite altre vie. Il corpo, ad esempio, funge da canale adatto alla trasmissione dei propri sentimenti, e sotto questo aspetto la manifestazione più importante è l’abbraccio. Esempio eclatante è l’abbraccio tra Cassavetes e la Rowlands dentro il taxi in Love Streams: un gesto puro, totale, senza il bisogno di un’aggiunta verbale per comunicare altro. La parola ha quasi più valore come rumore che come codice. D’altronde la colonna sonora (intesa come ambiente sonoro e non come musica) ha un’importanza enorme in questo modo di fare cinema. E’ una resa di tipo realistico che però assume valenze metaforiche impressionanti. Il regista era solito far registrare i dialoghi con un microfono e i rumori d’ambiente con un altro, posto più in lontananza. La colonna audio diventa così un tutto omogeneo: la parola non si distingue dal resto, si fonde con ciò che la circonda. In alcuni casi i rumori di fondo diventano veri e propri discorsi, che testimoniano estraneità. La polifonia delle strade di città, per la precisione quelle di Los Angeles, diventa la metafora dell’alienazione che la città stessa facilita, come in particolare in The Killing of a Chinese Bookie (L’Assassinio di un Allibratore Cinese, 1976). Il magma sonoro di New York in Gloria (Gloria - Una Notte d’Estate,1980) sta invece a caratterizzare un ambiente confuso, nevrotico, ma comunque caldo e partecipe.

(1 - continua)