Eric Rohmer

La modernità e la menzogna
di Stefano Finesi


Venezia 58 - 2001

 
Rohmer è probabilmente il più baziniano dei registi della Nouvelle Vague, quello che ha raggiunto il più alto livello di convergenza tra pratica filmica e nucleo teorico portante dei Cahiers. Anche per questo la sua opera appare di una coerenza straordinaria, scevra da qualsiasi sperimentalismo e arroccata con lucida ostinazione su un sistema di riferimenti che di film in film si articola in una prolungata variazione su tema, in una commedia umana compatta ma sempre animata da un'estrema mobilità di scrittura. Succede così che un film come La Nobildonna e il Duca, al di là dell'osanna generale da leone alla carriera, per molti sia stato anche l'occasione per ribadire alcuni (pre)giudizi, positivi e non, sulla letterarietà del cinema di Rohmer, su quel "classicismo" che nel tempo ha impedito ai suoi film lo statuto di culto assegnato ai capisaldi della Nouvelle Vague, nonché quella patente di innovazione con cui si festeggia l'entrata nel club della modernità. In fondo è lo stesso Rohmer a definirsi un classicista, è stato lui stesso a polemizzare all'interno dei Cahiers contro gli esiti più estremi della "politica degli autori" e a percorrere coscientemente la strada di un cinema che non si cura, per dirla con Bazin, di essere impuro, di aprirsi cioè alla contaminazione con altre forme espressive senza ricercare a tutti i costi l'esercizio formale di uno specifico filmico. Malgrado ciò, tuttavia, la sua opera non può non apparire incredibilmente moderna, di una modernità che va oltre ogni avanguardismo, per aspirare a una più cristallina sintonia col reale.

Il mio cinema, lei dice, è letterario: quello che dico nei miei film, potrei anche dirlo in un romanzo. È vero, si tratta però di sapere cosa "dico". I discorsi dei miei personaggi non sono necessariamente quelli del mio film. (...) Né il testo di questo commento, né quello dei dialoghi sono il film: si tratta di "cose" che riprendo allo stesso titolo dei paesaggi, dei volti, delle andature, dei gesti. E se lei dice che la parola è un elemento impuro, io non la seguo più: la parola fa parte della vita che io filmo, esattamente come l'immagine. Quello che "dico", non lo dico con le parole.
(Lettera ad un critico - A proposito dei Contes moraux).

I film di Rohmer sono molto parlati, si direbbe orgogliosamente parlati. Gli accostamenti con i grandi romanzi francesi del settecento (Laclos su tutti), in cui l'azione si riduce al minimo a favore di una raffinata componente affabulatoria, sono stati fatti più volte e più volte rispediti al mittente, anche quando la suggestione diaristica di molti film richiamava esplicitamente l'infanzia della narrativa moderna. Ma l'equivoco più vistoso è quello riguardante il ruolo della parola. In Rohmer, questa va collocata come sottoinsieme del paesaggio   umano che la cinepresa si appresta ad indagare, un sottoinsieme assolutamente necessario e naturale la cui portata non rende affatto conto dell'enunciazione dell'autore, in una sorta di composto balletto oratorio ad uso di una tesi da dimostrare. Ma se la parola non è la voce del pensiero dell'autore, ancora più significativo è il fatto che non esprime neanche quello dei personaggi. A differenza di una parola teatrale, legata a una funzione declamatoria, la parola nei film di Rohmer è innanzitutto menzogna, mistificazione: è attraverso le parole che i personaggi operano depistaggi, illudono se stessi e gli altri, illustrando la propria volontà di controllo razionale sul mondo. Quasi tutti i protagonisti rohmeriani sono convinti di poter dominare il proprio destino, di imprimere al corso degli eventi gli argini della propria razionalità, di schemi in cui tentano di imprigionare gli istinti propri e altrui: la parola, ovviamente, è lo strumento fondamentale attraverso cui si innalzano queste barriere illusorie, capaci di impedire la naturalezza di ogni rapporto. "Qui trop parole, il se mesfait", recita la frase di Chrétyen de Troyes che apre Pauline alla spiaggia.
Ecco allora che la vita, con spirito beffardo, interviene per smantellare tali costruzioni dimostrandone l'assurdità e l'inevitabile sbocco nell'infelicità: il castello di carte cade sotto l'urto del caso, della forza delle pulsioni primarie, dell'intreccio caotico delle stesse singole volontà. Se prendiamo i sei Racconti morali, alla base c'è sempre una semplice idea narrativa: un uomo è tentato da una donna proprio quando ha deciso di legarsi definitivamente a un'altra. Da una parte, quindi, la volontà di chiudersi in una decisione assoluta e incontrovertibile, dall'altra l'offerta imprevista e multiforme della vita, impossibile da imbrigliare in uno schema definitivo. La dialettica inscenata da Rohmer è quindi tra la parola, veicolo duttile di quella volontà, e un mondo incontrollabile fatto di volti, gesti, luoghi fisici in cui si raggruma e manifesta la passione: l'intreccio che ne scaturisce procede per istinti trattenuti e relazioni equivocate, autocastrazioni e aperture improvvise. Sarebbe sufficiente guardare l'uso che il regista fa del fuoricampo e dell'asincrono per comprendere come il più semplice colloquio riesca a caricarsi di acute tensioni sotterranee. La parola non è quindi all'origine di un cinema letterario e poco cinematografico, poiché ha senso solo entrando in collisione con il potere evocativo di immagini che improvvisamente svelano la ricchezza e l'inquietante bellezza del reale. Basta un ginocchio, insomma, a far tremare un matrimonio. Pittura, poesia, musica, ecc., cercano di tradurre la verità tramite la bellezza che è il loro regno e dalla quale non possono separarsi, a meno di sparire. Il cinema, invece, usa tecniche che sono strumenti di riproduzione o, se vogliamo, di conoscenza. In certo qual modo, possiede la verità di primo acchito e si propone la bellezza come fine supremo. Una bellezza, quindi, ed è questo l'importante, che non appartiene affatto a lui, ma alla natura.

Una bellezza che egli ha la missione, non tanto di inventare, ma di scoprire, di catturare come una preda, quasi di rubare alla cose.
(...) Ma se è vero che non la fabbrica, non si accontenta nemmeno di consegnarcela come un pacchetto già confezionato: piuttosto la suscita, la fa nascere secondo una maieutica che costituisce la sostanza stessa del suo modo di procedere.
(Il gusto della bellezza - Cahiers du cinéma, n. 121, 1961)

La maieutica, etimologicamente, è l'arte della levatrice, che porta la vita alla luce. Ed è, com'è ovvio, la tecnica socratica per far sì che un interlocutore lasci emergere, rispondendo a una serie di questioni, la verità che ha in sé. Il cinema di Rohmer mette in fila negazioni e paradossi per dare infine alla luce questa verità, un momento di completa sintonia tra uomo e natura in cui il mondo si rivela in tutta la sua bellezza. Ma sono appunto momenti, vissuti intensamente per un attimo o lasciati fuggire senza avere l'umiltà per accoglierli.
Ne La mia notte con Maud, forse il capolavoro del regista, il protagonista legge e commenta negativamente Pascal, con particolare riferimento alla scommessa con cui il pensatore francese prova la convenienza matematica della fede in dio. Ma è facendo lui stesso una scommessa sulla giovane Françoise, giovane cattolica da sposare per scelta ragionata, che Michel commette un identico atto di totalitarismo spirituale, ipotecando il proprio affetto in nome di un ideale che gli impedisce di avere una storia con Maud, offertagli dal caso come un improvviso e incontenibile lampo di bellezza. La notte con Maud è la notte in cui la fedeltà ottusa alle proprie convinzioni, o, ancora peggio, alla declamazione delle proprie convinzioni, rovina l'incanto imprevisto del mondo.
L'ultima inquadratura de Il raggio verde, è la dimostrazione più compiuta di questo incanto: il caso, l'uomo e la natura si allineano perfettamente in un fenomeno quasi irripetibile. Delphine, la protagonista, non ha fatto che alzare muri tra sé e gli altri, soffrendo per la solitudine che ne deriva. Un gruppo di persone ascoltato casualmente mentre discute del romanzo di Jules Verne, spiega il fenomeno fisico del raggio verde, una scia luminosa dovuta alla rifrazione dei raggi solari e visibile, per pochi secondi, solo quando il sole tramonta in particolari condizioni atmosferiche. Come sostiene il romanzo, chi vede il raggio verde può leggere nei propri sentimenti e in quelli altrui: così quando Delphine, a fianco di un ragazzo appena conosciuto, riuscirà a vederlo del tutto casualmente, riuscirà a guardare dentro e fuori di sé senza paura. Come abbiamo detto, Rohmer è fedele al valore più profondo delle teorie baziniane, quello che rinviene nel realismo ontologico l'intima natura del cinema: il cinema non crea bellezza, ma rivela la bellezza del mondo. Tale epifania, tuttavia, non è qualcosa di dato in sé, ma è realizzabile solo all'interno di un processo complesso: bellezza è verità e verità è bellezza, ma niente si dà senza menzogna.

Il cinema eccelle nel dipingere i sentimenti solo in quanto essi nascono dai nostri continui rapporti con le cose e, cose essi stessi, si riducono a essere soltanto il movimento o la mimica che di volta in volta ci impongono. E che cosa di meglio della sua efficacia può essere giudice dell'autenticità del gesto? Non è più la passione, ma il lavoro, cioè l'azione dell'uomo, che il cinema si è scelto per tema.
(Quale vanità la pittura... - Cahiers du cinéma, n. 10, 1952)

Hawks non è il cineasta dell'apparire, è il cineasta dell'essere. Cosa
vuol dire? Non lo so. Non posso sviluppare l'argomento, ma è così: in lui non c'è opposizione tra essere e apparire. E neppure tra essere e nulla, è l'essere opposto all'essere, se così si può dire.
(Intervista con Eric Rohmer di Jean Narboni)

E' spaventoso il numero di cortometraggi di esordienti che, in un modo o nell'altro, mettono in scena solo cineasti! Penso che al mondo ci siano altre cose oltre al cinema e che il cinema, al contrario, si nutra di cose che esistono attorno a lui. Il cinema è anche l'arte che meno può nutrirsi di se stessa.
(Ibidem).

Howard Hawks è il cineasta del gesto puro, incontaminato. Il suo cinema rappresenta la quintessenza del cinema classico perché capace di una narrazione perfetta, universo granitico e autosufficiente di azioni giustapposte. In Rohmer, il gesto, come spontanea e vitale emanazione del mondo, è invece una dolorosa conquista o un'illuminazione improvvisa, ma non è mai dato in sé: il cinema rimane, sì, strumento di rivelazione della bellezza, ma attraverso un percorso accidentato che innanzitutto si prende cura di nasconderla e mistificarla per bocca dei suoi protagonisti. In questo senso, il suo cinema è lontano dal cinema classico, ne ha perso l'innocenza dell'eloquio; ma allo stesso tempo sappiamo che è lontano da qualsiasi sperimentazione formale, sentita come vuota autoreferenzialità. Non è un caso che Rohmer (a differenza di Truffaut e Godard) abbia sempre rifiutato la pratica del metacinema, considerata lo sforzo massimo di un'estetica della forma fine a se stessa: nel momento in cui il cinema si sbilancia verso il linguaggio, commette lo stesso peccato di hybris dei personaggi che rinunciano a guardare in faccia il mondo per frapporre la pretesa manipolazione della parola.
Nel terzo episodio di Incontri a Parigi, "Madre e bambino1907", il protagonista è un pittore, alle prese con due ragazze (ovviamente) e con Picasso, autore dell'opera che dà il titolo all'episodio: come spiega alla sua amica osservando il "Grande nudo su poltrona rossa", "E' abbastanza orripilante. Io trovo che fa spavento quel quadro. Si ha l'impressione che la donna sia rivoltata come una pelle di coniglio e che le si vedano le viscere. È là tutto il dramma di Picasso: non sopportava di non poter mostrare allo stesso tempo la faccia e il profilo, l'interno e l'esterno."
Il pittore passa poi a illustrare le sue scelte a una ragazza rimorchiata per strada, mostrandole i paesaggi che dipinge lui: "Trovi che sia fotografico? Si che lo è. Ma la macchina fotografica sono io: davanti a un paesaggio mi trasformo, ma non in fotografia, in apparato fotografico." Iperrealismo? "No, anche questo è un'impasse, io ho scelto un'altra via. (...) Li dipingo per impregnarmi di una certa luce. Mi interesso allo spazio, al cielo, alla linea dell'orizzonte, cerco di dimostrare che la Terra è curva solo per mezzo della luce." Se il desiderio di manipolazione pittorica di Picasso porta con sé un germe di oscenità, ugualmente condannabile è la pura registrazione fotografica: solo se l'artista si trasforma in un dispositivo ricevente che vive in completa empatia con quanto lo circonda, la sua arte sarà veramente vibrante. Rohmer agisce in questa prospettiva. Pudicamente, non apre le viscere dei suoi personaggi, non mente egli stesso, né dice, tuttavia, più di quanto può apparire sullo schermo: il gioco della verità e della menzogna, del gesto e della parola, della scelta e del caso, appartiene solo all'umanità che la cinepresa indaga con discrezione. La sua arte non mente e non manipola, semplicemente ascolta, con la consapevolezza tutta moderna di quanto tale ascolto sia disturbato da un terribile rumore di fondo: il premio è un unico, grande momento di commozione, la cui bellezza ingloba il cinema come la vita nel miracolo ancora possibile della verità.

Filmografia
Agente speciale (Triple Agent) 2004
La nobildonna e il duca (L'anglaise et le duc) 2001
Racconto d'autunno (Conte d'automne) 1998
Un ragazzo... tre ragazze (Conte d'été) 1996
Incontri a Parigi (Les Rendev-vous de Paris) 1995
L'albero, il sindaco e la mediateca (L'Arbre, le maire et la médiathéque) 1993
Racconto d'inverno (Conte d'hiver) 1992
Racconto di primavera (Conte de printemps) 1990
L'amico della mia amica (L'ami de mon amie) 1987
Reinette e Mirabelle (4 aventures de Reinette et Mirabelle) 1987
Il raggio verde (Le rayon vert) 1986
Le notti della luna piena (Le nuits de la pleine lune) 1984
Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage) 1983
Loup y es-tu? 1983
Il bel matrimonio (Le beau marriage) 1982
La moglie dell'aviatore (La femme de l'aviateur) 1980
Perceval (Perceval le gallois) 1978
La marchesa Von O. (Die marquise Von O.) 1976
L'amore il pomeriggio (L'amour l'après-midi) 1972
Il ginocchio di Claire (Le genou de Claire) 1970
La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud) 1969
La collezionista (La collectionneuse) 1967
Fermière à Montfauçon 1967 (cortometraggio)
Une étudiante d'aujourd'hui 1966 (cortometraggio)
Paris vu Par... ( episodio: Place de L'Etoile) 1965
Nadja a Paris 1964 (cortometraggio)
La boulangère de Monceau 1963 (cortometraggio)
Le carrière de Suzanne 1963 (mediometraggio)
Il segno del leone (Le signe du lion) 1959
Veronique et son cancre 1958 (cortometraggio)
La sonate à Kreutzer 1956 (cortometraggio)
Bérénice 1954 (cortometraggio)
Prèsentation ou Charlotte et son steak 1951 (cortometraggio)
Journal d'un scélerat 1950 (cortometraggio)