Pasqualino Settebellezze
Nel regno dei vermi vitali
di Adriano Ercolani

 
  Italia, 1975
di Lina Wertmüller, con Giancarlo Giannini, Fernando Rey, Elena Fiore, Shirley Stoler

Come si può, attraverso la fiction di un lungometraggio, raccontare l’orrore? Come si fa ad intrappolare una tragedia come l’Olocausto in un contesto “altro” come la rappresentazione cinematografica? Anche la scelta documentaristica, massima espressione di adesione alla realtà ed alla storicità dei fatti, non riesce però a vanificare la distanza spazio/temporale tra l’accadimento e la narrazione dell’accadimento stesso. Si può appunto provare a raccontare, si può tentare di testimoniare ciò che è stato: Steven Spielberg, con Schindler’s List, è stato probabilmente l’autore che in questo senso ha partecipato più di tutti alla tensione verso la narrazione - simpatetica, non c’è dubbio - di un processo storico/sociale di così inaudita incomprensibilità. Il suo lungometraggio è probabilmente l’espressione più alta di come il cinema possa avvicinarsi e provare a raccontare ciò che è successo, nella maniera più fedele e sincera possibile consentita ad un mezzo che è sempre comunque finzione, e che perciò non sarà mai testimone assoluto dei fatti, in qualsiasi forma esso si presenti.
Per questo forse, invece di raccontare ciò che a nostro avviso non può essere raccontato, proprio a causa dell’essenza stessa del mezzo/cinema, che altro non può fare se non mettere in scena anche la realtà più oggettiva, forse più che raccontare appunto sarebbe opportuno il tentativo di interpretare: scegliere una chiave di lettura, un fulcro attraverso il quale provare a mostrare un possibile significato (si badi bene, “un”, non “il”) di quello che è stato l’orrore dei campi di concentramento. E quale lente può essere più appropriata per affrontare una tale aberrazione se non quella del grottesco? Lina Wertmüller con Pasqualino Settebellezze compie l’inaudito esperimento di mettere in mostra il delirio, il caos, e di restituirne allo spettatore non una forma organizzata e realistica, ma tutta la forza barocca e cupa di un inferno dantesco. Il percorso che l’autrice sceglie è quello di un misero e sfigatello guappo napoletano, che per assecondare il proprio istintivo desiderio di vita affronta e sguscia tra tutte le peripezie possibili, fino ad arrivare all’inferno dei lager: dunque farsa, pochade, lazzo comico alla Pulcinella, e poi ospedali psichiatrici, prigioni, infine campi di sterminio. Il mezzo attraverso cui il grottesco riesce meglio ad esprimersi è senza dubbio il contrasto, l’accostamento di due espressioni contrarie dal cui stridore viene generata energia propulsiva. Questo è Pasqualino Settebellezze: una farsa atellana attraverso cui si presentano dolore ed orrore, non comprensibili a livello razionale e quindi “altri”; in questo caso, non si può non procedere per accumulo spropositato di informazioni e dettagli, fino a raggiungere l’overdose sensoriale che porta alla deformazione. Perciò il film è un susseguirsi di colori forti, suoni roboanti, luci sparate, il tutto mescolato con grandiosa vena barocca dalla Wertmüller, che mette in scena uno spettacolo tanto prezioso quanto efficacemente stordente: dai siparietti napoletani ai dormitori dei prigionieri, ogni immagine è carica di una pregnanza visiva di straordinaria efficacia e di assoluta coerenza, quasi impossibile da tirar fuori in una così eterogenea composizione di luoghi e storie. Eppure il miracolo accade, ed il film si regge su una sceneggiatura capace di sbizzarrirsi in ogni direzione eppure di mantenere una solidità narrativa ammirevole. Anche i personaggi, ognuno specchio di una metafora assolutamente esplicita, contribuiscono a questo gioco di sovraccarico che porta ad una comprensione diversa da quella razionale, più interna e viscerale. Pasqualino Settebellezze è un film che arriva alla testa dello spettatore adoperando la strada impervia del riso più cupo, di quello di cui qualche volta ci si vergogna. La resa grottesca del delirio organizzato è resa al suo massimo potenziale nella folgorante scena dell’amplesso tra lo smagrito Pasqualino e l’opulenta aguzzina tedesca, che costringe il prigioniero all’atto sessuale a prezzo della vita. Dopo, quando questa struggente ed insieme ridanciana tragedia visiva si sarà consumata, le parole della matrona saranno perentorie: “Tu fai schifo a me. Tua voglia di vivere fa schifo a me. Tuo amore fa schifo a me. In Parigi un greco faceva l’amore con un’oca: faceva questo per mangiare, per vivere. E tu, larva subumana mediterranea, riesci a trovare la forza per tua erezione di maschio. Per questo rimarrete voi, vincerete voi, piccoli vermi vitali senza ideali né idee. E noi, i nostri sogni di un’umanità eletta… troppo difficile…”.
Chiudiamo questo doveroso tributo ad uno dei film più sottovalutati della storia del cinema italiano con l’altrettanto doverosa menzione all’interpretazione di un grande Giancarlo Giannini, qui al meglio delle sue enormi potenzialità interpretative: nel dettaglio dei suoi occhi, che nell’ultima inquadratura del film dicono senza più crederci “Sì, sono vivo…”, si chiude una delle opere più affascinanti e sconcertanti della nostra cinematografia, un baraccone deviante e disturbante come solo i grandi lungometraggi sanno essere.
Da riscoprire, per farci i conti ancora una volta.