Bersaglio di notte

Harry Moseby, blind eye
di Piero D’Ascanio


Frame-Stop:
Arthur Penn

  Night Moves, Usa, 1975
di Arthur Penn, con Gene Hackman, Jennifer Warren, Melanie Griffith, Susan Clark

Ogniqualvolta torniamo con la mente a quel meraviglioso 1975, lo facciamo con un’innegabile gioia, quella tipica del cinefilo certo di imbattersi in tanti oggetti del proprio amore. Merito di tutto un periodo storico particolarmente felice, profondamente segnato tanto da vitali ondate sperimentali, quanto da rassicuranti sussulti di splendido classicismo.
Stando nell’ambito americano, particolarmente ricco di autori vecchi e nuovi, il nome di Arthur Penn salta alla mente quasi subito: il cineasta newyorchese a quell’anno si era già fatto interprete di tutta la carica eversiva del “nuovo cinema” - con Gangster Story (Bonnie & Clyde, 1967) - e aveva contribuito alla revisione ideologica in atto sull’universo western con la splendida parabola di Piccolo Grande Uomo (Little Big Man, 1970); solo per dirne un paio e tacere di molto altro.
Bersaglio di notte arriva ben cinque anni dopo le avventure del “picaro” Hoffman nell’eterodosso western dell’autore; sono gli anni in cui furoreggiano i movie brats, i neo-cineasti dell’ultima generazione, quella formatasi soprattutto nelle università. E Penn, autore old school - è il più vecchio di tutti, classe 1922 - si ferma quasi per farli passare, interessato ad analizzare da spettatore i risultati di quell’impeto giovanile; dopo, egli potrà riprendere il suo discorso. Solo che nel frattempo deflagra l’effetto della traumatica effrazione al Watergate, avvenuta nel 1972: finisce il sogno americano, si insinua il sospetto, striscia l’inquietudine. E Night Moves, poetica espressione filmica di un’individualità in crisi - al pari del contemporaneo La conversazione - trattiene in sé tutto quel sapore amaro.
Il Noir, è cosa nota, non è un genere che si adatti a epoche serene; nasce nell’oscurità, nella perversione morale di periodi bui e riflette con le sue tetre vicende la reale corruzione della società.
Premesso questo, ciò che viene fuori da Bersaglio di notte, noir fortemente non convenzionale, è quindi una crisi “al quadrato”: la profonda difficoltà del momento storico americano è infatti significata sia dal ritorno al genere dark per eccellenza che dalle trasgressioni da Penn operate sulla struttura del genere stesso.
Nel film, l’investigatore privato Harry Moseby viene incaricato di rintracciare e riportare a casa la sedicenne Delly, giovane figlia dei tempi dissoluta e libertina, fuggita non si sa dove: ciò che dal torbido intrigo verrà a galla - letteralmente - non sarà facile da decifrare, e tanto meno da accettare.
Sgombriamo il campo da dubbi: tutto concorre a che l’ottavo film del regista sia ancora una volta un grandissimo film, uno dei suoi migliori. L’imprevedibile incursione nel noir di Penn non somiglia a nient’altro; merito dell’ottimo script di Alan Sharp, dell’ispiratissima messa in scena dell’autore - governata dal sapiente montaggio della fidata Dede Allen, qui più libera e creativa che mai - oltre che di uno stato di grazia attoriale difficile a trovarsi in un “film di genere” (ma l’espressione - seppur virgolettata - ci fa rabbrividire, tanto più parlando di anni settanta americani).
Gene Hackman consegna al suo Harry Moseby statura ben più ampia di quella che spetterebbe al private eye di turno; la sua figura fa il paio con l’Harry Caul de La conversazione - era sempre lui - e arricchisce la straordinaria galleria di perdenti che il “nuovo cinema” ci va consegnando in quegli anni. La struttura di fondo è la medesima per tutti: individui in profonda crisi, incapaci di decodificare una realtà che non si dà mai come leggibile o abitabile, per i quali la ricerca di qualcosa, o qualcuno - la ragazza scomparsa -significa anche sempre ricerca di se stessi. Nel film di Penn il protagonista non è l’inattaccabile vettore dell’azione, l’incaricato del regista di far luce sul mistero dell’intreccio; è esso stesso un punto interrogativo, un groviglio di problematiche, una figura tutt’altro che risolta, dilaniata tra l’attaccamento ad un lavoro che spesso odia e una tormentata vita privata. Il film si apre proprio sulla scoperta da parte di Moseby del tradimento della moglie, e su quel terreno torna rapsodicamente, infilando una serie di scene da psicodramma e mantenendo significativamente separate la dimensione pubblica e quella privata del protagonista, in modo da raddoppiarne la crisi agli occhi dello spettatore. Non c’è luce, nell’assolato universo noir di Penn, il quale però condensa i “movimenti notturni” del titolo in solo due sequenze, alle quali egli delega - con mirabile sintesi espressiva - tutto il senso dell’opera: sono i momenti del ritrovamento del cadavere decomposto in fondo al mare, deriva horror che è vero “correlativo oggettivo” di una realtà torbida come poche, e della delicata sospensione amorosa tra Moseby e la seducente Paula - Jennifer Warren, bravissima - flebile barlume di una serenità effimera e quanto mai transitoria; l’unica possibile. La splendida prestazione di una giovanissima Melanie Griffith nel ruolo della luminosa Delly, femme fatale in erba ma per questo non meno letale, non fa che aggiungere valore all’insieme; e da Night Moves, dalla sua freschezza e dalla grande sapienza della regia nel gestirne le cangianti tonalità, emerge la lezione sempre moderna di un autore che è stato tra i più raffinati e colti nella personalissima rielaborazione delle vetuste strutture di genere.