Nashville

I mostri di Robert Altman
di Piero D'Ascanio


Frame-stop Robert Altman
  id., USA, 1975
di Robert Altman, con Keith Carradine, Shelley Duvall, Ned Beatty, Scott Glenn, Michael Murphy, Geraldine Chaplin, Lily Tomlin, Barbara Harris

Tutto il cinema di Robert Altman, faro della rinascita autoriale americana dei ruggenti anni Settanta, tende e confluisce dentro la sua opera-evento del 1975.
Il maestro di Kansas City arriva a Nashville una volta conclusa la sua tortuosa avventura nei generi, iniziata dal western de I compari (McCabe & Mrs. Miller, 1971) e proseguita, attraverso il thrilling di Images (id, 1972) e il gangster di Gang (Thieves Like Us, 1973), fino al capolavoro noir de Il lungo addio (The Long Goodbye, 1973), opera fondamentale da più punti di vista.
In fondo, lo stesso Nashville rientrerebbe nel genere del film musicale; ma ci sembrerebbe davvero riduttivo parlarne solo in rapporto al paradigma classico da cui esso, in maniera evidente, si discosta. Per Altman, la rappresentazione cinematografica del celebre festival di country music della capitale del Tennessee è un occasione per allestire il più grande happening della sua carriera, sorta di set itinerante continuamente in movimento lungo il territorio della città. Il fine dell’autore è imbastire una trasparente allegoria del suo Paese, visto - scrutato, sorpreso, analizzato - nel corso di una gioioso (?) “rito” di massa. E facendolo, riflette necessariamente sull’operazione “allegorica” sempre in atto nel cinema, in quanto arte creatrice di testi passibili di molteplici letture, a seconda della riscrittura del testo stesso da parte delle dinamiche ricettive in opera nella psiche spettatoriale.
La manifestazione musicale è l’escamotage attraverso cui il regista squaderna sullo schermo un viluppo di storie, fatti, suoni, colori che sfondano da subito i confini fisici di Nashville e della sua popolazione, ridotta a “campione umano” a uso e consumo dell’entomologo Altman. Di più; il festival è solo un filo narrativo disperso all’interno del turbine di caratteri che realmente interessa l’autore, “mostri” ferreriani attraverso cui egli affila la sua spietata (auto)critica. E una volta di più il cinema americano “teorizza” il ricorso al formato largo; ciò a cui disperatamente la produzione degli anni Cinquanta si aggrappava per rilanciare l’unicità della visione in sala, diventa in mano ai nuovi autori molto più che un orpello tecnico (quello che poi, purtroppo, ultimamente è ridiventato); il Panavision cattura porzioni di realtà impensabili per un taglio televisivo, e associato ad un consapevole uso della profondità di fuoco e dello zoom può trasformarsi in strumento eccezionale per chi abbia interesse a sottolineare la compenetrazione tra l’individuo e l’ambiente che lo contiene. È proprio ciò che succede in Nashville, “ipertesto” moderno nel quale del resto tale operazione è ben lungi dal limitarsi all’aspetto visivo: l’autore infatti ha riposto anche nel sonoro della sua opera parte integrante del senso in gioco, sperimentando per l’occasione un innovativo sistema di registrazione a ventiquattro piste, l’unico adeguato al tipo di lavoro che egli si prefiggeva. La restituzione fedele del coacervo di voci e rumori, slogan e canzoni dispiegati nel tentacolare universo del film è pertinente al senso stesso del gesto registico altmaniano, al suo proposito di fornire al pubblico quanto più materiale - visivo, sonoro, umano - fosse in grado di mettergli a disposizione, e da cui ogni singolo spettatore potesse attingere per costruire il “proprio” film. Lo spirito che anima il cineasta nella sua dodicesima fatica è il giusto punto d’arrivo di un percorso iniziato almeno fin dall’epoca de I compari: a prescindere dall’operazione messa in atto sul genere western, già allora Altman prendeva le distanze da tutta una pratica di cinema, quella che credeva in un necessario rapporto di rigida successione tra fase letteraria e shooting di un film. Meglio, quella che pur non attribuendo virtù di “intoccabilità” alla sceneggiatura, vi vedeva comunque esplicate le idee fondamentali dell’opera, il suo “senso” generale; ed è proprio questo il nodo teorico prepotentemente messo in discussione dall’ happening altmaniano.
Il suo cinema moderno cerca e trova il senso in fase di ripresa. Ferma restando un’autorialità delle più marcate - il “controllo” del cineasta sull’opera è di quelli totali - i set di Altman si configurano come luoghi di produzione continua di significato, complice una “militante” apertura della troupe a tutta la gamma di influssi del reale. Un’idea di cinema del genere, si immagini, trova il suo perfetto ambito di esplicazione a contatto con una materia quale quella offerta dalla kermesse musicale della piccola città di provincia. Per forza di cose, il set diventa l’intero nucleo urbano; gli eventi si rincorrono, e non si capisce più se il cinema insegua la musica o viceversa. Per quei cinque giorni, la troupe di Altman prende possesso della vita di Nashville, la tallona, ne scruta i molteplici umori, ne restituisce le mille sfaccettature. L’autore s’insedia nella città, sale sul suo punto più alto, vi rompe il vaso di Pandora e ne spia i maligni effetti sulle persone: cerca di non farsi sfuggire nulla - ha dalla sua tutti i complementi tecnici necessari - e di restituire al pubblico quanta più materia possibile; per poi spietatamente - si vedrà - tirare anch’esso in mezzo al Caos.

Ventiquattro personaggi in cerca d’autore
Arriva gente da tutti gli Stati per partecipare o assistere al Festival di musica. Ma negli stessi giorni Nashville è teatro di un evento parallelo, costituito dalla campagna di un fantomatico politico - non appare mai - candidato del “Terzo Partito”. Naturalmente c’è tutto l’interesse, da parte di chi lavora per lui, nel canalizzare l’evento musicale a favore della riuscita elettorale. Questo è lo sfondo sul quale il film (in)“scrive” il suo materiale umano. Ed è anche subito la premessa dell’operazione di spersonalizzazione - o “ripersonalizzazione” - che Altman mette macroscopicamente in atto.
In Nashville, l’idea di un racconto classicamente inteso non è nemmeno presa in considerazione; d’altronde è ovvio, considerati l’assunto che muove il film e il suo proposito primario di rompere violentemente con una tradizione narrativa vecchia di mezzo secolo. Tuttavia, la pretesa stilistica di Altman mira ancora più alto; la macchina da presa non si sofferma praticamente mai sugli short cuts che le si parano davanti, salta di continuo da un contesto ad un altro, estremizzando in maniera radicale la tecnica - peraltro classica - del montaggio alternato.
Fatto interessante: in mano al cineasta, tra i più consapevoli nell’uso dei codici che il linguaggio cinematografico mette a disposizione, il ricorso ad uno strumento tradizionalmente classico cambia di segno in modo radicale. Altman gioca d’azzardo e punta sull’eccesso; tendendo all’estremo il meccanismo, finisce che lo distrugge, “espropriando” lo strumento principe del racconto griffithiano di tutto il suo portato di carica narrativa; sebbene nel film tutto poi effettivamente conduca in un unico posto - quello dove i nodi dovrebbero venire al pettine - nell’arrivarci lo spettatore nemmeno si avvicina ad uno statuto di “onniscienza”; infatti, pur potendo teoricamente “scegliere”, nel magma che l’autore gli squaderna davanti, di seguire l’una o l’altra storia, egli non sa mai dove l’insieme stia andando a parare, causa la totale assenza di sottolineature registiche in favore di un (sotto)intreccio piuttosto che di un altro. Arriviamo così al punto, poiché quella apparente latitanza autoriale nasconde una reale assenza di qualsivoglia sistema gerarchico che regoli l’orchestrazione dei caratteri. Cosicché Nashville si ritroverebbe, a rigor di logica, con ben ventiquattro protagonisti. Il che equivarrebbe a nessuno.
Evidentemente l’opera si pone agli antipodi del modello strutturale dominante nel cinema contemporaneo, quello imperniato sulla caratterizzazione “di ferro” del personaggio principale. Il film di Altman piuttosto si avvicinerebbe al paradigma costituito dai romanzi ottocenteschi, spesso polifonici o dialogici, meno rigorosi sulla questione del personaggio centrale, pieni di eventi e discorsi digressivi e trattanti il personaggio più come una figura esemplare che come una quasi-persona.
Ma il vero scarto operato da Nashville si gioca sul terreno della modernità. La macchina da presa del regista rimane sempre in “superficie”, difficilmente si preoccupa di adottare un’ottica di tipo emotivo. In continuo movimento, essa si cura bene di non avvicinarsi mai troppo al suo materiale umano; nel film non si trova praticamente traccia di primi piani, da sempre lo strumento principe del linguaggio cinematografico in fatto di approfondimento psicologico. L’occhio di Altman detiene invece quella che definiremmo una eccezionale sensibilità “antropologica”, ed è il motivo per cui spesso ci sembra comunque di stare “dalla parte” di qualcuno. Ma è solo uno dei tanti tranelli dell’autore; la sua scrittura “superficiale” non privilegia niente e nessuno.

Le vie della violenza
L’ordito altmaniano, diremmo, va piuttosto in una direzione psicanalitica. Se la costruzione dei suoi personaggi è gravemente carente in fatto di requisiti minimi necessari - un’obiettivo concreto, un conflitto da risolvere, una psicologia connotata - tanto che spesso non si capisce realmente “dove” essi stiano andando, l’insieme delle due dozzine costituisce un interessante sistema di rimandi fondati sul tema del “doppio”; si dica a titolo esemplare del doppel più lampante di tutti, quello rappresentato dal personaggio di John Triplette - Michael Murphy - galoppino e prolungamento “visibile” del misterioso Hal Philip Walker, il candidato politico che non appare mai, essendo solo continuamente evocato attraverso dialoghi, slogan, striscioni, notiziari.
Attraverso questo gioco di ammiccamenti e di sottotesti filosofico-psicanalitici - lettura avallata anche da elementi come quello della significativa “doppia” figura di madre oppressiva, sia del soldato-fan di Barbara Jean che del ragazzo attentatore del finale - Altman sottrae praticamente ogni rilevanza al personaggio in quanto tale, per “risignificarlo” invece nella totalità del coro. E direzionare l’insieme verso quello che sembra l’unico destino possibile per il grande “macropersonaggio” di Nashville, e cioè quella “violenza” tutta catalizzata nell’omicidio finale. Essa attraversa l’intera l’opera, in forme ora evidentemente fisiche - l’attentato a Barbara Jean - ora più sottilmente psicologiche, come nel caso del personaggio del succitato galoppino elettorale, o della scena in cui un triste strip-tease viene imposto all’aspirante cantante Sueleen Gay, costretta a spogliarsi da chi le promette un’esibizione sullo stage del Centennial Park, proprio davanti a quel grande “feticcio” rappresentato da una grottesca riproduzione del Partenone.
Come si vede, quindi, quello del film-fiume di Altman si va configurando come un caso particolare anche all’interno di un contesto come quello americano degli anni Settanta. Il cinema del periodo ci aveva già abituati a fare a meno di una guida forte all’interno del sistema dei personaggi. Spesso, si trattava d’un vuoto presente fin dalla fase di scrittura; si pensi a tutto il filone “on the road”, così disinvolto nel trattare gli snodi narrativi e quelli che tecnicamente si chiamano i “profili” dei caratteri.
Ma il “vuoto” rappresentato dallo script di Joan Tewkesbury nel nostro caso è raddoppiato dal “vuoto di regia” - l’espressione è a dir poco avventurosa - di Altman. Ma è un vuoto, si badi, solo fisico, inversamente proporzionale al “pieno” tutto teorico dell’autore. Nella grande complessità che l’opera vanta a livello di rapporto con il pubblico, aspetto moderno continuamente messo in gioco, Altman mischia le carte, facendo credere allo spettatore di detenere il senso ultimo dell’architettura narrativa. In realtà, non aspetta altro che di ribaltare la situazione, ed è ciò che fa nel finale, riprendendo le redini della partita e “puntando” il mirino della macchina da presa direttamente contro la platea. La cosa interessante è che l’autore lo fa “davvero”, grazie all’espediente metacinematografico del concerto. È così che Altman mette il veleno sulla coda al suo film; non pago del memorabile sberleffo inflitto ad un popolo che pur di far “continuare lo spettacolo” intona “It don’t worry me” anche dopo un omicidio, il regista non lascia fuori dalla sua accusa nemmeno l’“innocente” spettatore cinematografico, cui il ruolo privilegiato di neutro osservatore poteva far credere d’essere esentato dall’invettiva; invece attraverso il suo delegato filmico - il pubblico del concerto - egli gli punta il dito contro, frugando spietatamente tra i volti, tanto ravvicinato che il suo “occhio” inquisitore va più di una volta fuori fuoco.
Altman non ha certamente bisogno di vertiginosi carrelli o spettacolari dolly per certificare il suo grado di “autorialità” e rammentare al pubblico la propria presenza in cabina di regia; essa, in Nashville, sta tutta nella “finzione di spontaneità” che regola l’ordito. Non si creda ancora nel mito di una realtà che “si apre” da sé; non è certamente quello in cui crede Altman. Piuttosto, egli pensa che il cinema possegga una effettiva disposizione a farsi sorprendere e guidare dalle dinamiche scaturenti da un gruppo di persone calate in un dato contesto; ma una volta scelti l’uno e l’altro, beninteso, e avendo creato le condizioni adatte. Questo è il miracolo di Nashville, ciò che gli dà le precipue virtù di un documentario anche una volta che abbiamo preso invece atto del suo inconfutabile grado di costruzione; ciò che poi lo rende ancora così moderno, a trent’anni dalla sua uscita.