Il cinema di Jim Jarmusch e il jazz

Fra disperazione e ironia
di Donatella Valeri

 
 
Potrei evocare il lavoro di musicisti bop, come Charlie Parker, che suonava standard, arie popolari, trasformandole… Vorrei integrare elementi diversi, che occupano tutti un posto importante ai miei occhi, film di genere, libri, arie musicali, e lavorarci sopra, come su un materiale nuovo.
(Jim Jarmusch)

L’immagine dell’istante
Vi sono registi capaci di inventare un territorio, un nuovo spazio non prevedibile, dove le regole nascono con le immagini. Un territorio di continue sperimentazioni, dove i rapporti fra suono e immagine, o fra improvvisazione e scrittura, sono manipolati volta per volta: un universo fluttuante. Registi come John Cassavetes, Jean-Luc Godard fino ad arrivare a Jim Jarmusch o Wong Kar-wai, hanno arricchito l’immagine di uno slancio vitale, abbracciando cliché per poi subito abbandonarli, spogliati dalle catene della prevedibilità.
I musicisti bebop hanno seguito lo stesso percorso: la loro ricerca è partita dai cliché consolidati, dalle melodie lineari e dal ritmo blues, per poi approdare a una nuova concezione della musica, che prevede la spontaneità, il caso, la rottura irreversibile fra tempi deboli e tempi forti. Le innovazioni riprese dal free jazz andranno oltre, nella ricerca di un’opera sganciata da ogni forma di prevedibilità. Il caso, in questo tipo di jazz come nel cinema in questione, non è un incidente di percorso, ma spunto creativo, base di partenza per il lavoro successivo. Le “anomalie” non sono e non devono essere accidentali, ma anzi divengono essenziali nei brani di Mingus o Charlie Parker come nei film di Jarmusch o Godard, in cui i raccordi non seguono più alcuna regola spaziale, temporale, logica, ma un ritmo, una pulsazione propri del film, come se non esistesse una realtà al di fuori della pellicola. Il jazzista sa che ogni assolo nasce nota dopo nota, seguendo una pulsazione interna, uno slancio vitale che il musicista ha impresso all’inizio della performance, così come il personaggio nasce gesto dopo gesto, parola dopo parola: è un corpo che prende forma lentamente e crea se stesso. L’opera esiste solo e unicamente nella sua esecuzione, vive nell’istante, vive nei corpi dei jazzisti, corpi indissociabili dagli strumenti. Il musicista sconvolge l’ascoltatore sovvertendo le regole ritmiche e distruggendo le gerarchie fra gli strumenti. L’improvvisazione si pone a ogni livello della creazione musicale e l’imprevedibilità diviene base per invenzione continua, allontanando le soluzioni tradizionali. Similmente, Jim Jarmusch sceglie un’immagine inquieta, angolosa, in disequilibrio, un’immagine che nasce e si basa sull’istante e sull’imprevisto.

Oltre il tempo delle certezze
La passione per il jazz, in particolare l’amore reverenziale per Charlie Parker, la predominanza data al corpo, ai gesti, agli sguardi silenziosi degli attori, le immagini di città desolate, in cui girovagano personaggi ciondolanti, lo sguardo su un mondo esterno frammentario e su una realtà incompleta; l’amore per la fusione di elementi diversi, le razze e le culture distanti, ma anche il rock di Neil Young, il jazz di Bird, la New Wave di John Lurie, il rap di RZA e, ancora, ogni sorta di libro e il film di genere, dal western, al road movie al gangster film; la rivisitazione e la ricreazione di motivi facilmente riconoscibili, i continui riferimenti alla memoria cinematografica (ma anche a quella letteraria e musicale): tutto questo è alla basa del cinema di Jim Jarmusch. Opere che inventano un mondo frammentario, fatto di lampi, di visioni, di attimi indipendenti, fra cui lo spettatore deve erigere un ponte. Un cinema di ricerca continua fra la libertà e la struttura, fra l’innovazione e l’amore per il passato, fra la linea retta e la successione tortuosa di istanti, fra l’arte collettiva e il valore occidentale dell’individualismo. Come i maggiori esponenti del bebop e poi del free jazz. È finito il tempo delle certezze, dello sguardo unilaterale, delle corrispondenze esatte. Allie (Chris Parker), il protagonista di Permanent Vacation, così introduce il film e il suo personaggio, anticipando quella che sarà la condizione normale di quasi tutte le figure di Jarmusch: “Questa è la mia storia, o almeno in parte. Non pretendo che venga capita. Cos’è una storia se non uno di quei disegni a puntini che, collegati, formano l’immagine di qualcosa? La mia storia, in fondo, è così. Vado da qui, da questa persona, a lì, a quella persona, e non è che cambi molto. Ho conosciuto molte persone, ci ho vissuto, le ho viste agire, a modo loro. Per me, questa gente è come una file di stanze, proprio come tutti i posti dove sono stato”.

Generi Bebop
Lo spaesamento che coglie lo spettatore è inevitabile: quello di Jarmusch è un cinema che abbraccia l’imprevisto, e non ha alcuna pretesa di collegare arbitrariamente i frammenti del puzzle disorganizzato che compongono la nostra cultura. Bisogna guardare oltre le immagini di un’America in decomposizione, per intravedere quello che resta del Sogno Americano: e Jarmusch lo fa partendo dai generi classici. Il cinema di carcere ed evasione in Daunbailò, il western in Dead Man, il gangster movie in Ghost Dog: nelle sue mani i generi si trasformano in contenitori, dai quali eliminare o ai quali aggiungere inediti elementi. I personaggi dei suoi film sono corpi che partono dall’immaginario collettivo e rinviano alla memoria dello spettatore: i mafiosi di Ghost Dog si ricollegano alla serie di personaggi del gangster movie; Jack e Zack in Daunbailò non sono altro che eroi di un film noir americano. Le loro storie, non differiscono dalle innumerevoli vicende viste in decenni di cinema, vengono narrate velocemente, a frammenti, per scarti, come se lo spettatore non avesse bisogno di sapere più di quanto venga mostrato. Jarmusch si appropria di questo universo codificato, gioca e reinventa figure e generi stereotipati: lo standard, fra le sue mani, si trasforma in melodia nuova, tanto da eludere in Daunbailò il fulcro stesso del genere di partenza, l’evasione. È a partire da un ricordo cinematografico di Bob (Roberto Benigni) che l’evasione viene organizzata, ma non vista: solo uno scarto del tempo e delle immagini ci mostra l’avvenuta fuga, che, invece, nella forma classica del genere avrebbe occupato la parte preponderante del racconto. In Dead Man, è il protagonista stesso, William Blake, a operare un importante scarto rispetto al genere tradizionale: al posto di un giustiziere, capace di riportare la tranquillità nel villaggio facendo rispettare la legge, qui ci troviamo di fronte un eroe passivo, che non agisce, ma si lascia agire, che guarda il mondo sempre con occhi stupiti. Il resto dei personaggi tutti d’un pezzo si trasformano in figure ridicole: “Sally” Jenko (Iggy Pop) si traveste da donna, Cole Wilson soffre di mal di denti, Conway Twill dorme con un orsacchiotto. Giocando con lo standard, Jarmusch presenta un inventario di figure surreali. Si diverte a calare i personaggi rigidi e cristallizzati dei mafiosi di Ghost Dog in un ambiente che non è più il loro: vengono minacciati di sfratto dal proprietario del locale dove si riuniscono, divengono il bersaglio di un bambino che lancia loro contro i giocattoli, si divertono a guardare vecchi cartoni animati in televisione, cantano e ballano la musica rap dei Public Enemy prima di morire.
Un simile percorso demistificatorio lo subisce il road movie. In Jarmusch il viaggio non ha altro significato se non il viaggio stesso. L’errare di Allie, in Permanent Vacation, nella città di New York, fra le macerie della sua casa; il viaggio in macchina, in Stranger than Paradise, di John Lurie; la fuga attraverso le paludi della Louisiana, in Daunbailò; il viaggio in treno per Memphis della coppia giapponese, in Mistery Train; la scoperta per William Blake, in Dead Man, che il lontano West è solo un mondo solitario e desolato; le strade anonime e periferiche di New York percorse da Forest Whitaker in Ghost Dog: tutte continue variazioni sul tema. Il viaggio perde il fascino e la sorpresa: per questo la baracca nella palude in cui approdano i tre “eroi” di Daunbailò non ha niente di diverso dalla cella del carcere. I paesaggi sono tutti uguali, anonimi, desolati o distrutti, tanto da eliminare la differenza fra la Memphis polverosa e vuota e la New York triste e squallida. Si spostano per inerzia, in un deambulare senza meta, lungo tappe che non sono altro che “una fila di stanze” insignificanti. L’esterno è una questione di sguardo, e la medesima funzione dei luoghi abbandonati e desolati nel primo lungometraggio hanno la gigantesca discarica vista dalla coppia di giapponesi all’arrivo a Memphis (altro che la città di Elvis Presley!) o la città di Dead Man, persa nel lontano West, che dimentica i panorami abituali per sfoggiare al suo centro una grande fabbrica.

Cineritmi musical
La musica, dalle improvvisazioni di Parker o Coltrane, alle note urlate del sassofono di Lurie, dalle frasi spezzate dei brani di Tom Waits, alle melodie isolate e ripetute all’infinito di RZA, diviene un modello. Jarmusch dunque (in passato tastierista del gruppo punk rock Del Byzanteens, dei Gark Day e dei Lone Rangers) considera la sua un’arte molto vicina alla composizione musicale. I suoi film sono miniere di citazioni e omaggi: in Permanent Vacation il protagonista Aloysius Christopher Parker vuole chiamare un suo futuro figlio Charlie Parker, ascolta il free jazz, incontra per strada il sassofonista John Lurie impegnato in un assolo. Eva, in Stranger than Paradise è una patita della musica di Screamin’ Jay Hawkins. Tom Waits (tra l’altro compositore con John Lurie di molte delle colonne sonore dei suoi film) in Daubailò è il tipico personaggio blues, malinconico, ciondolante, con lo sguardo perennemente perso nel vuoto. Mistery Train è un viaggio nel cuore del blues e uno dei suoi personaggi è interpretato da Joe Strummer, cantante del gruppo inglese The Clash. A Neil Young, che compone la colonna sonora di Dead Man improvvisando ininterrottamente per due giorni, e al suo gruppo, The Crazy Horse, il regista dedica nel 1997 un lungometraggio, Year of the Horse. La colonna sonora di Ghost Dog è affidata al leader del gruppo Wu Tang Clan, il rapper RZA, che il regista considera il “Thelonious Monk dell’hip hop”.
In Ghost Dog la musica di RZA, mescolando hip hop, reggae, rap, soul e rumori di strada, senza mai dimenticare il ruolo principe della melodia, amplifica l’atmosfera creata dal regista: nel racconto del film non si può parlare di un solo ritmo, ma di tanti ritmi diversi, alternati, oscillatori. Lo scorrere delle immagini è spezzato dall’inserzione di passi del “Codice del Samurai”, sovraimpressi a nero e letti da una voce off, semplici respiri che rompono il ritmo, quasi una sorta di tasselli di un puzzle, senza logica narrativa. Jarmusch gioca con la macchina da presa, come un jazzista con il proprio strumento, cambiando registro, tempo, tonalità, senza però mai perdere di vista la melodia principale. Forest Whitaker primeggia, come un solista, passando con agio dalle immagini contemplative della preghiera e della meditazione, a quelle rapide dei combattimenti. La linearità del racconto si arresta, per poi riprendere in modo accelerato. Il corpo del samurai danza sul tetto di un edificio, facendo volteggiare la spada, galleggiando sulle note eteree, e il tempo rimane sospeso, intrappolato in immagini rallentate e sovrapposte. Nelle sequenze in cui Ghost Dog è a bordo di una macchina, la mdp è fissa su di lui, sul suo volto immobile. Fuori la città scorre velocemente, nell’alternarsi di luci e di marciapiedi. Il samurai è fermo, osserva e sembra solo aspettare la morte: lo sguardo può cogliere l’attimo e il tempo rimane congelato nello sguardo del protagonista. Ghost Dog è un uomo invisibile, si muove per le strade senza lasciare traccia del suo passaggio, senza che nessuno posi lo sguardo su di lui. E’ come un’ombra, un uccello: è Bird.

La forma instabile
Le immagini formano tasselli di un mosaico che è la realtà; e lo sguardo sul mondo, reale o cinematografico, è sempre incompleto o falsificante, come esemplifica il ricordo del primo incontro fra Ghost Dog e il suo padrone. L’immagine deforma i ricordi e la memoria, e noi non sapremo mai se Louie ha sparato per salvare la vita al suo futuro servitore o per salvare la propria. Il continuo ricorso a spazi neri che dividono le scene, senza seguire una logicità narrativa o temporale (pratica presente in quasi tutti i film di Jarmusch), è un ulteriore strumento che riflette la precarietà della visione. La narrazione procede per attimi, frammenti più o meno lunghi, solitamente filmati in piani sequenza e per lunghi momenti silenziosi fra i dialoghi, durante i quali sembra non accadere nulla: è la genesi-tipo dell’intera poetica di Jarmusch, che procede per accumulo di dettagli, unendo insieme varie idee, appunti di viaggi, letture. Invece di partire da una storia da arricchire gradualmente, è la storia stessa a essere generata da piccoli tasselli quasi insignificanti, se presi singolarmente. Le scene vengono filmate senza seguire uno schema cronologico, senza sapere a priori il posto che verrà loro accordato durante l’edizione. La vicinanza alla tecnica jazzistica (in particolare in Ghost Dog) è accentuata dalla predilezione per l’improvvisazione, sia nella stesura della sceneggiatura che nella direzione degli attori e nelle riprese (difficilmente Jarmusch fa ricorso a uno storyboard). Con una pratica guidata dall’amore per la scena isolata, sorta di microcosmo da astrarre, ogni sequenza è considerata come slegata dalla seguente. Gli inserti neri non sono una convenzione, non seguono una regola e possono apparire alla fine di sequenze di vari minuti come di qualche secondo, creando un ritmo molto particolare, elaborato d’istinto in fase di montaggio. La forma dei film di Jarmusch è sempre instabile, così come i suoi personaggi, perennemente in bilico fra disperazione e ironia.